di Francesco Ciabattoni (Georgetown University).
“lui che scende e che sale e si sente l’America
fammi l’Amore” (Gianna Nannini, “America,” 1979)
È una passione, quella per l’America, che a molti può stare stretta e scomoda. E di certo, nella lunga storia della canzone italiana, il mito americano viene declinato in modi diversi da ogni cantante, dalle metafore erotiche di Gianna Nannini, in cui “lui allunga la mano e si tocca l’America,” alla spietata ironia di Carosone, che nel 1956 già satireggiava in dialetto napoletano la dilagante moda a stelle e strisce nella geniale “Tu vuo’ fa’ l’americano,” che crea una analogo della famosa scena di Un americano a Roma (regia di Steno, 1954) in cuiAlberto Sordi, dopo aver invano tentato di ingoiare yogurt, mostarda, latte (insomma la “robba che magnano l’americani”), si arrende all’enorme piatto di spaghetti che lo ha “provocato e io me te magno.”
C’è chi l’America la guarda dalla “provincia denuclearizzata” come un sogno irraggiungibile e ironizza sulle fake news di “coccodrilli [che] escon fuori dalla doccia,” e d’altronde “l’America è lontana, dall’altra parte della luna,” e allora tanto vale ballare qui, in una balera sperduta da qualche parte nella pianura padana. Ma se Bersani e Dalla cantano in realtà—per differenza—la provincia della profonda Padania, dove l’esistenza si trascina lenta “a sei chilometri di curve dalla vita,” l’America può essere davvero vissuta da dentro, e allora essa è anche la prateria, la frontiera, la libertà e l’avventura del bufalo che “può scartare di lato e cadere,” è la fascinazione per ciò che rappresenta la possibilità, la capacità di scoprire e avventurarsi a vent’anni, e poi di adattarsi a cinquanta, è il la paesaggio sterminato, la mitologia di un continente, la sua selvaggia vitalità.
De Gregori–che scrisse “Bufalo Bill” e “Titanic” e parlò dell’America in questa intervista con Carlo Massarini–infatti visitò davvero il nuovo continente, insieme a Fabrizio De André, che preferì raccontarla dalla parte dei Cheyenne e degli Arapaho sterminati a Sand Creek nel 1864, dedicando anche l’immagine del suo disco del 1981 a un nativo americano (un dipinto di Frederic Remington), forse accogliendo le parole di Vasco Rossi che pochi anni prima sembrava ammonire i colleghi un po’ troppo entusiasti che “non siamo mica gli americani”. Per Guccini, fra esperienza di famiglia e innamoranti giovanili, l’America è addirittura “Atlantide… il cuore… il destino, / sorrisi e denti bianchi su patinata… / il mondo
sognante e misterioso di Paperino… / provincia dolce, mondo di pace, / perduto paradiso,” insomma, un po’ tutto quello che si ama con l’innocenza dei bambini, grazie al filtro dello zio Amerigo.
E poi c’è chi, senza ironia, ma sempre da Napoli, abbandona il sogno americano, insostenibile, irrealizzabile, perché—dice Edoardo Bennato— “Tu vuoi l’America che io non ti posso dare, / tu vuoi l’America che sta al di là del mare,” e allora meglio vivere nel rumore di Bagnoli e intitolare il disco Ok Italia! Ma l’America può stare nel sound, come nel blues e gospel di Zucchero (penso a “Hey Man,” a “Solo una sana e consapevole libidine,” e molte altre), nelle note jazz delle stelle di Paolo Conte, nello swing mediterraneo di Sergio Caputo, nel Dixieland con la gomma da masticare di Fred Buscaglione che si dondola fra Toro Seduto e Marylin Monroe, o magari il grammelot di “Prisencolinensinainciusol” di Celentano che lo slang americano se lo inventa proprio, eppure è credibilissimo!
Insomma, queste sono solo alcune delle moltissime canzoni italiane che offrono una prospettiva sull’America (e non citiamo per decoro la rabbiosa invettiva di Finardi mentre canta le lodi della “Dolce Italia”!): chimera, sogno distante o spauracchio, essa è di gran lunga il Paese più invocato nella storia della nostra canzone.