Alice
(Forlì, 1954 – )
Di Elena Porciani (Università della Campania “Luigi Vanvitelli”)
È il febbraio 1981, il Festival di Sanremo si risolve in un testa a testa fra Maledetta primavera di Loretta Goggi e Per Elisa di Alice: tra la canzonetta tradizionale, interpretata da un’affermata show woman televisiva, e una canzone più sensibile ai mutati tempi del pop europeo, cantata dalla rivelazione dell’estate precedente, che dopo anni di false partenze ha finalmente trovato il suo giusto mentore in Franco Battiato, alla EMI.
Il boom della Voce del padrone avverrà solo nell’autunno successivo, ma Battiato già da un paio d’anni ha convertito lo sperimentalismo degli anni Settanta in una via al cantautorato alternativa alla scuola romana e dintorni, erede di un’esperienza progressive che si avvia ad essere il grande rimosso della popular music italiana. Battiato, però, non è solo un cantautore e musicista: è anche un talent scout che, col suo team di fidati sodali – Giusto Pio e Angelo Carrara in testa –, riesce a intercettare un’artista che sinora non ha ancora ottenuto il successo che si merita: Carla Bissi, nata a Forlì nel 1954, già vincitrice di Castrocaro 1971 e nuova proposta a Sanremo 1972, poi dal 1975 attiva con il nome d’arte di Alice Visconti, con il quale pubblica per la CBS due melensi album prodotti da Giancarlo Lucariello, il fautore del pop sinfonico dei Pooh 1971-1975, e infine dal 1980 semplicemente Alice.
Nome evocativo che andrà forse aggiunto all’‘alicemania’ intercettata da Gianni Celati nel 1977 come nomen dell’effimera anarchia giovanile dell’epoca, ma che senz’altro suggerisce l’elusività caratteriale del personaggio, che si afferma con un’immagine di giovane (bella) donna imbronciata e cerebrale, poco propensa al sorriso di convenienza e già intenta a costruirsi una rispettabilità non solo di interprete della musica di Battiato, ma anche di autrice e musicista in proprio. Oltre che vocalist dal potente timbro di contralto, Alice è infatti pianista e compositrice di liriche e musiche, come già si nota in alcune tracce dell’album Capo nord del 1980, nonché nel successivo, del 1981, intitolato semplicemente Alice, che contiene la canzone vincitrice di Sanremo e l’altro grande successo dell’estate, Una notte speciale.
Perché sì, al Festival il duello l’ha vinto lei, anche se le vendite premieranno Loretta Goggi, che però non bisserà più questo exploit, mentre Alice, pezzo dopo pezzo, mette le basi per una solida e valida carriera. Il long playing del 1981, tuttavia, contiene una canzone, Senza cornice, che lascia intuire come quella della cantante di successo è una dimensione che va stretta alla nostra:
Contrariamente a quel che si dice
io vivo sempre senza cornice,
solitamente faccio le spese
di questa vita mia senza pretese. […]C’è tanta gente che mi odia da sempre
e non ho mai capito per quale ragione
sarà per caso questa mia ostinazione
a voler fare solo ciò che mi pare.
Ho constatato con soddisfazione
che anche le rose metton prima le spine
e quando scrivo le mie contraddizioni
mi sento viva sono tutte reazioni
Indipendente, ostinata, spinosa, contraddittoria, oltre che fiera scrittrice dei propri umori: sono qualità che la canzone rivendica e che bene descrivono il percorso a venire di Alice.
Comunque, prima che Alice esca dalla cornice del pop, passerà ancora qualche anno, il tempo di pubblicare altri due album, Azimut (1982) e Falsi allarmi (1983), che la confermano come interprete e autrice in grado di costruire un originale orizzonte espressivo di soggettività femminile. Azimut segna già, tuttavia, una prima discontinuità: se le due canzoni trainanti dell’album – il singolo estivo Messaggio e il duetto Chanson egocentrique – poggiano ancora fortemente sulla collaborazione con Battiato, le altre portano la sua firma, eccetto Laura degli specchi che è di Eugenio Finardi. Si intuisce, cioè, che Alice ha acquistato fiducia e non vuole essere più identificata come la protegée di Battiato, ma mira a un riconoscimento di autonomia artistica. Il distacco diventa più deciso col successivo – e meno felice – Falsi allarmi, privo di brani scritti dal cantautore siciliano; dopodiché, c’è ancora tempo per un sistematico omaggio a Battiato con l’album di cover Gioielli rubati del 1985, dove spicca Prospettiva Nevski, e d’ora innanzi Alice inizia a esplorare nuove frontiere musicali, progressivamente uscendo dal radar pop.
La svolta matura fra il 1986 di Park Hotel e il 1989 di Il sole nella pioggia, acclamati dalla critica ma segnati da un diminuito successo commerciale – almeno in Italia, perché in altri Paesi europei, specie in Germania, Alice continua a vendere. Passato al timone di produzione il compagno Francesco Messina, gli album sono caratterizzati da prestigiose collaborazioni internazionali e da sonorità di crescente elitaria raffinatezza, in cui Alice diluisce l’altero impeto interpretativo dei primi anni Ottanta in un’ispirazione sempre più eterea, ma anche a costante rischio, nei futuri avvolgimenti colti e spirituali, di una non risolta, a volte pretenziosa impalpabilità.
Negli ultimi trenta anni, con altri otto album pubblicati, dalla sua nicchia di ricerca Alice è sporadicamente riapparsa nei circuiti pop: ad esempio, nel 2000 con un’improbabile, probabilmente imposta, nuova partecipazione a Sanremo – con Il giorno dell’indipendenza, sfortunata canzone donatale da un altro suo autore di riferimento: Juri Camisasca – e poi più recentemente nei tour con Franco Battiato, con cui in Samsara (2012) e Weekend (2014) ha anche riavviato la collaborazione musicale. L’ultimo album contiene persino un nuovo duetto, poi riproposto dal vivo, che è un omaggio a Claudio Rocchi, il cantautore progressive scomparso nel 2013: La realtà non esiste, che recita «Quando vivi, tu sei un centro di ruota e i tuoi raggi sono raggi di vita, | puoi girare solo intorno al tuo perno o puoi scegliere di correre e andare»: quasi un bilancio di più di quaranta anni di ostinata e spinosa carriera senza cornice.
Azimut è l’album, uscito nell’autunno del 1982 dopo il successo estivo di Messaggio, che consacra Alice come interprete e autrice. Le nove tracce disegnano una soggettività dalle più varie sfumature, sia nelle scelte musicali che procedono dal cantautorato intimista all’urlato grintoso, quasi rock, sia nelle liriche che possono esprimere un io al contempo sofferente e diffidente, come in Una mano, ma anche un punto di vista divertito e non convenzionale, come in A cosa pensano.
La canzone che concentra tutte le diverse sfumature e prospettive è proprio Azimut, che mette in scena una prima persona che non corrisponde linearmente all’artista, bensì un personaggio narrante, uno di quelli che Elsa Morante avrebbe definito un alibi d’autore: un angelo del focolare capace di rovesciarsi nel suo doppio diabolico e, così, di rappresentare una visione del femminile che è potentemente sovversiva nel panorama della canzone italiana dei primi anni Ottanta.
Dopo i precedenti folk di cantautrici come Margot e Giovanna Marini, solo in questo periodo le donne stanno conquistandosi uno spazio anche nell’industria musicale pop che vada oltre l’interpretare brani scritti da uomini con la loro concezione variamente patriarcal-sentimentale dell’universo femminile, in cui, per intendersi, le fanciulle, piccole e fragili o calde e innocenti che fossero, in ogni caso sempre andava[no] a piedi nudi per la strada indossando quella maglietta fina tanto stretta al punto che s’indovinava tutto, tanto per parafrasare alcuni versi degli anni Settanta stampati nell’immaginario collettivo.
All’inizio del decennio successivo, al pari di Gianna Nannini e Rettore, Alice è una delle protagoniste di questo faticoso percorso di emancipazione espressiva pop-musicale, destinato a prendere sempre più vigore negli anni a venire, con figure come Cristina Donà e Carmen Consoli, ma anche con mature interpreti convertite alla scrittura come Loredana Bertè e Nada. Il percorso di Alice rispetto alle sue coetanee Nannini e Rettore è più intellettuale e caratterizzato da una scrittura in levare, che ben si confà al suo nome d’arte; le sue canzoni sono infatti specchi liquidi da attraversare per entrare in una wonderland di racconti elusivi e allusivi, avvicinati dalla potenza della voce, malinconica non meno che oscura.
Azimut ne è la perfetta dimostrazione: introdotta dall’arpeggio synth iniziale, la prima strofa delinea una soggettività amorosa e fedele, una ‘dolce farfalla’ che ha scelto il suo fiore e a lui è devota, tutta risolta nello spazio domestico dello spolverare, rammendare e cucinare. Ecco però la rottura improvvisa, che accade al momento di leggere un simbolico giornale che reca la data di un ‘giorno speciale’: un giorno che, in realtà, già covava ‘da tanto’ nella routine della cura angelica, inconfessato.
La terza strofa mette in campo, così, uno scenario del tutto mutato: l’io non è più l’angelo, ma il ‘diavolo della casa’, di una ‘stella annullata’ che non si capisce bene se, per mero equivoco o voluta metonimia, Alice identifica con l’azimut, che piuttosto sarebbe una coordinata astrale, a meno di non voler riferire ‘azimut’ a ‘sono’, cosicché l’io diventerebbe il punto di riferimento di un universo che appare enormemente più ampio della casa della ‘dolce farfalla’. Un tocco di realismo, non privo di una nuance umoristica, si riconosce poi nell’abbassamento di pressione, come un collasso della compiuta felicità domestica che si incontra con il richiamo del ‘vento d’autunno’, quasi un cifrato richiamo a Il vento caldo dell’estate, la hit che due anni prima ha sancito per Alice il raggiungimento del successo. Di nuovo appare il termine ‘momento’: a sancire un parallelismo con la strofa precedente che però è tale solo in apparenza, perché la lunga attesa si è invero risolta nell’uscire fuori dalla casa.
Con ciò siamo già nell’enigmatica quarta strofa, nella quale si misura tutto il talento elusivo di Alice. Il nuovo dettaglio realistico della foglia che sfiora la guancia suggerisce che ci troviamo in un giardino o in un bosco, in un luogo comunque frondoso e misterioso, ma aperto, altro rispetto alla precedente reclusione, sennonché l’io fa ‘finta di niente’: ancora, forse, non vuole prendere del tutto coscienza, ancora non vuole concedersi la fuga. Ma un’ombra le appare, impalpabile ed enigmatica, che solo voltandosi capisce che cosa sia: è l’ombra della sua casa svanita, la traccia evanescente del luogo della fedeltà amorosa e devota scomparso.
Nonostante l’ultimo verso possieda il tratto risolutivo del finale, non si assiste a un vero scioglimento della vicenda: l’angelo-diavolo contempla l’ombra di uno spazio domestico dissolto, ma si mantiene in un limbo più metafisico che circostanziato, in una perfetta tensione perturbante che finisce per insinuare la ‘casa che non c’è’ nell’iniziale spazio domestico.
Si capisce, quindi, che siamo anni di luce distanti dalle visioni del femminile care ai parolieri mainstream, popolate di ragazzine da svezzare o di femme fatale senza cuore e morale; piuttosto, è l’azimut di una nuova stagione di cantautorato femminile.
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