Enrico Ruggeri
(Milano, 1957 – )
Di Luca Bertoloni (Università di Pavia) Tra i cantautori milanesi, difficilmente ci si ricorda di Enrico Ruggeri, escluso perfino da diversi canoni della canzone d’autore italiana (come quello di Paolo Talanca). La ragione di tale dimenticanza può forse risiedere nel suo percorso sociale e artistico, piuttosto atipico per un cantautore tradizionalmente riconosciuto come tale, soprattutto nel periodo in cui ha esordito nel mondo musicale, ossia la fine degli anni Settanta, mentre frequentava gli ambienti dell’istruzione (prima il liceo e la facoltà di Giurisprudenza come discente, poi la scuola media come docente di Lettere): in quegli anni infatti era ormai andato codificandosi in Italia uno specifico modello di cantautore standard, da cui era facile essere esclusi se non si rispondeva a determinate caratteristiche, soprattutto politiche. Il cantautore doveva essere soprattutto un paroliere, e i suoi testi dovevano essere per forza impegnati, sia politicamente che socialmente: non è infatti un caso che Edoardo Bennato, nel 1976 e nel 1977 (in brani come “Cantautore” e “Sono solo canzonette”) cercò di smarcare pubblicamente tutta la sua categoria da quello che era ormai diventato non solo uno stereotipo, ma un vincolo che condizionava le azioni di coloro che si affacciavano all’universo musicale nazionale. Accadde così anche per Rouge (così si fa chiamare il cantautore milanese), che si fa notare sul finire degli anni Settanta come musicista punk, e solo in un secondo momento come paroliere; il suo primo brano noto al grande pubblico di cui firma anche le parole, “Contessa”, che gli permette di arrivare nel 1980 in finale al Festival di Sanremo, non è infatti un suo successo personale, ma del gruppo di cui fa parte, i Decibel, i quali si sperimentano in un genere musicale innovativo nel panorama del nostro paese: il punk. Il testo del brano non riscuote interesse del pubblico, attirato invece dalla musica: eppure, in quell’incipit rivolto ad una donna che sentimentalmente ha deluso l’io narrante si possono già osservare tutti i tratti che segneranno il carattere forte, controcorrente e provocatorio di buona parte della produzione del cantautore milanese. Non puoi più pretendere di avere tutti quanti attorno a te. Non puoi più trattare i tuoi amanti come fossero bignè. Vuoi solo le cose che non hai, parli delle cose che non sai, cerchi di giocare ma non puoi, pensi solamente ai fatti tuoi. Nel 1981 Ruggeri abbandona i Decibel, cercando da subito un’autonomia sia produttiva che artistica che lo porterà a sperimentare nuovi stili e sonorità. La fortuna come solista arriva con il 1983 grazie al successo di “Polvere”, singolo di lancio di un album omonimo che si piazza in classifica al Festivalbar, contraddistinto da un rock potente, anticommerciale, che presenta nel testo e nella struttura una sintesi tra linguaggio cinematografico e quello canzonettistico: il brano infatti si apre con una vera e propria inquadratura (“Piano americano / e sfioro il tavolo con una mano”), a cui seguono una serie di zoom che sembrano alternarsi come immagini nella mente dell’io narrante (“Polvere, gran confusione / un grigio salone / in quale direzione / io caccerò la / polvere dai miei pensieri”), il cui sconvolgimento è reso, oltre che dalle parole, anche dal ritmo incalzante del basso, delle chitarre e dei suoni elettronici, tra i quali si muove, con forza, la voce quasi gracchiante di Ruggeri. Questi tratti poetico-musicali saranno ancora più evidenti ne “Il mare d’inverno” (1983), brano scritto da Ruggeri, parole e musica, insieme a Luigi Schiavone, fido chitarrista e suo partner artistico sin dalla sua uscita dai Decibel, ed affidato da Ivano Fossati, che lo ha prodotto (credendo molto nelle doti di Enrico), alla voce di Loredana Bertè: il risultato è un successo stratosferico, nel quale si coniuga il testo in cui Ruggeri, esprimendo il meglio delle sue doti autorali, sigla un elogio (ancora una volta cinematografico) della solitudine (più esistenziale che umana), e l’interpretazione graffiante della Berté, che connota la performance con elementi di rabbia esistenziale. Nel testo verbale, Ruggeri manifesta uno stile che si può definire simbolista, grazie al quale carica di significati emblematici e simbolici tutto quello che viene attraversato dal suo sguardo, che filtra, come una macchina da presa, i paesaggi, gli oggetti e il mondo esterno, i quali, a loro volta, si caricano dello stato d’animo dell’io-narrante. Si legga, per esempio, la seconda strofa. Il mare d’inverno è un concetto che il pensiero non considera È poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera. Alberghi chiusi, manifesti già sbiaditi di pubblicità, macchine tracciano solchi su strade, dove la pioggia d’estate non cade, e io che non riesco nemmeno a parlare con me. Le tre strofe hanno sempre la stessa struttura: un’apertura dedicata ad un’immagine del mare; un corpo centrale dedicato ad una serie di correlativi oggettivi che accompagnano il paesaggio marino durante la stagione invernale – di norma elementi materiali e urbani, che rimandano alla presenza umana; una coda in cui prende parola l’io narrante, e vi manifesta esplicitamente il suo stato di solitudine. Il legame tra gli elementi che compongono le tre parti delle strofe, che appaiono apparentemente slegati (ossia il mare, gli elementi del paesaggio urbano e l’io narrante), si legano tra loro nelle parole del ritornello Mare mare qui non viene mai nessuno a trascinarmi via non ti posso guardare così perché questo vento agita anche me. grazie alla presenza del vento, che sembra unire con la sua forza naturale lo stato di solitudine dell’io con quello del paesaggio urbano devastato dall’inverno, privo della carica emotiva presente invece in estate. Tuttavia, l’io narrante non appare mai spaesato, ma soltanto “agitato”, come se trovasse in quel paesaggio desolato un compimento del suo stato d’animo e un interlocutore adatto a comprendere il suo stato di solitudine esistenziale. Il limitato ricorso ad articoli e l’uso di una sintassi giustapposta rafforza l’effetto evocativo di tutto il brano, in cui l’io si rispecchia continuamente, come in un gioco di specchi, nel mare e nel paesaggio urbano. Questo nuovo stile consacra Ruggeri innanzitutto come autore, anche se non ancora come cantautore. Cercando di convincere il pubblico sulle sue abilità cantautorali, e cercando a tutti costi di imprimersi nel mercato discografico, nel 1984 muta completamente le sue sonorità, ispirandosi alla tradizione milanese (Gaber, Jannacci) e all’esistenzialismo dei cantautori della scuola genovese (come Luigi Tenco), sperimentandosi in brani jazz dall’atmosfera sospesa, come “Rien ne va plus”; in parallelo, prosegue sia l’esperienza di paroliere pop, firmando uno dei suoi più grandi successi, “Quello che le donne non dicono”, affidato nel 1987 alla voce di Fiorella Mannoia, che si fa notare come interprete, prendendo parte più volte al Festival di Sanremo: riscuoterà grande successo la sua partecipazione al Festival dello stesso anno, nel quale si esibirà con Gianni Morandi e Umberto Tozzi sulle noti di “Si può dare di più”. In questi anni Ruggeri affina una scrittura sempre più simbolista ed esistenzialista, come si può notare dal testo de “Il portiere di notte” (1986), che vede come protagonista – ancora una volta – la solitudine. Questo sentimento subisce una nuova oggettivazione nella figura del portiere notturno di un albergo, che, incontrando persone diverse ogni notte, si innamora di una prostituta, e fantastica con lei una fuga d’amore. Riprendendo un tema già affrontato in una traduzione italiana da un brano francese di Gino Paoli, Ruggeri scrive un testo più espressivo e personale, che si presenta come un monologo interiore ad alta voce del portiere, dalla natura ancora cinematografica, come un’unica grande soggettiva. Lo si può vedere già dalla prima strofa. Vanno via e non tornano più; non danno neanche il tempo di chiamarli. E non lasciano niente, non scrivono dietro il mittente e nelle stanze trovo solo luci spente. Così appaiono agli occhi dello spettatore tutte le figure che “vanno via” davanti ai suoi occhi, sottolineando la sua condizione perenne di solitudine interiore. Gli anni Novanta segnano una svolta musicale nella produzione di Ruggeri, con il ritorno al rock delle origini, pur virando verso le sonorità che più lo avevano visto protagonista delle scene musicali della fine degli anni Ottanta: tale svolta è segnata prima da “Peter Pan” (1991), il suo album di maggior successo, e poi da “Mistero”, brano presentato nel 1993 al Festival di Sanremo, e forse, oggi, il suo successo più grande. Il ritorno al rock, intrapreso lungo strade progressive, passa per successi come “Gimondi e il cannibale” (2000), uno dei tanti brani italiani dedicati al ciclismo, nel quale espone attraverso un lungo monologo interiore le impressioni di Felice Gimondi mentre cerca di inseguire il cannibale Eddy Merckx Scivolano case tra persone fuori a guardare ci sarà riparo al vento lungo questo pavè ci sarà la polvere che nel respiro mi sale Si può notare uno stile ancora una volta cinematografico, che piuttosto che narrare preferisce evocare quello che il ciclista italiano vede in prima persona, che si riflette – come sempre – sul suo io), “Primavera a Sarajevo” (2002) e “Nessuno tocchi Caino” (2003), un toccante monologo interiore (eseguito in duetto con Andrea Mirò) contro la pena di morte, e molti altri. Nel proseguo degli anni Duemila, la verve cantautorale di Ruggeri sembra venire meno, poiché preferisce dedicarsi alla realizzazione di alcune cover, e sperimentarsi, con discreto successo di pubblico, prima come scrittore, pubblicando il suo primo romanzo nel 2011 (che segue alcune raccolte di poesie risalenti ai decenni precedenti), poi come conduttore televisivo e radiofonico. Queste nuove esperienze permetteranno, nel tempo, una nuova maturazione artistica: nel 2013 dà alla luce uno dei suoi album migliori, “Frankenstein”, un concept album ispirato al capolavoro di Mary Shelly incentrato ancora una volta sulla tematica della solitudine, vero e proprio leitmotiv di tutto il suo canzoniere. Nel singolo, “Diverso dagli altri”, si può osservare una summa delle tante solitudini cantate dal cantautore, nelle quali si rispecchia egli stesso: un autore libero, di difficile collocazione sia sociale che politica, che si è sempre mosso senza mai riconoscersi esplicitamente in nessun gruppo, e senza mai essere ufficialmente riconosciuto alla pari di alcuni colleghi (dunque, vivendo una “vita di confine”). Io vivo la mia vita di confine, sono l’anello mancante, sono fuori dalle vostre consuetudini e non mi cambierete mai. Io porto la corona con le spine ma sono un verme strisciante, voi non vedete più similitudini e non mi guarderete mai. Dopo una nuova partecipazione a Sanremo, il 2018 segna il ritorno con i Decibel, prima sul palco del Festival, con il brano “Lettera dal Duca”, dedicato a David Bowie, e poi con la pubblicazione de “L’anticristo”, i cui testi sono firmati ancora una volta da Ruggeri. Le sonorità pop-rock si legano ad uno stile verbale in cui Rouge affronta ancora una volta la tematica della solitudine attraverso una serie di oggettivazioni: un ottimo esempio è “Baby Jane”, ritratto in terza persona, e non più in prima, di una giovanissima che passa le sue giornate sui Social, realizzato dal punto di vista degli adulti che sembrano non comprendere il suo mondo. La piccola Jane è infatti, ancora una volta, un’emarginata che si sente sola rispetto ad un mondo adulto che sembra non comprenderla, e rispetto ad un mondo adolescente che la vede come un modello, nonostante lei non abbia niente da insegnare. Prende il mondo così come va e non si interroga, conosce tutte le pubblicità, manda messaggi, non telefona. Scrive mille frasi che ha copiato dal web e le dimentica e le sue amiche le somigliano con i commenti sulla pagina. Nel suo ultimo album, La rivoluzione, uscito nel 2022, Ruggeri si conferma essere uno spirito libero, e cerca di farsi, forse definitivamente, voce e carico di tutti i coetanei della sua generazione (“Abbiamo viaggiato, abbiamo combattuto / abbiamo mangiato la polvere guardando le stelle”, da “Magna Charta”), che hanno vissuto un’emarginazione simile alla sua per via del non volersi riconoscere in alcun gruppo sociale: la copertina del disco, infatti, è una fotografia della classe di Rouge negli anni del liceo classico, e i brani parlano quasi sempre al plurale. Simbolo di tutto l’album, pervaso da uno spirito sovversivo e di rivalsa, è il brano “Non sparate sul cantante”, che non solo riecheggia il dibattito sui cantautori attivo negli anni Settanta in brani di Edoardo Bennato o Roberto Vecchioni (Ruggeri preferisce, non a caso, il termine più neutro “cantante”), ma sottolinea il carattere unico del cantautore milanese, segno non solo del suo esistenzialismo simbolico, ma soprattutto della forza della sua rabbia contro le ingiustizie sociali del mondo. Un uomo dovrebbe esser così grande da capire quanto è piccolo: usare bene le parole, lame infuocate nel sole; cavalcare frasi fino all’imbrunire, fino all’alba, dove un viaggio può arrivare; fermarsi, solo per non scappare prima di andare via. Il cantante del brano è infatti un simbolo di tutte le lotte cantate da Ruggeri nel corso della carriera, lotte che vengono descritte facendo riferimento all’immaginario cinematografico, in particolare ai duelli dei film western, come se, grazie all’ascolto del brano, ci si trovasse immersi in una sequenza di un film di Sergio Leone, di cui Ruggeri riprende sia le atmosfere musicali che quelle visive, sia nel testo del brano che, ancora di più, nel videoclip lanciato sul suo canale YouTube. Il cantautore milanese prende allora parola, ancora una volta, nel “luogo dell’ultima sfida” (“Non sparate sul cantante”), difendendo la libertà della propria categoria, e sottolineando come la gente comune, che urla disperata e convinta “non sparate sul cantante”, abbia bisogno, all’interno dei disorientamenti contemporanei, di spiriti liberi che si esprimono in musica, parole e performance. In poche parole: di cantautori. Lavori citati – Accademia degli Scrausi, Versi Rock: la lingua della canzone italiana negli anni ’80 e ’90, Milano: Rizzoli, 1996. – Bertoloni, Luca, “Possibilità intermediali della forma-canzone tra cinema, scrittura, performance e new media”, in Cinergie. Il cinema e le altre arti», n. 18, 2020, pp. 117-129. – Casamassima, Pino, Enrico Ruggeri: gli occhi del musicista, Genova: De Ferrari, 2003. – Ruggeri, Enrico, La vie en rouge: Enrico Ruggeri si racconta a Massimo Cotto. La mia vita, le mie canzoni, Milano: Sperling & Kupfer, 2001. – Talanca, Paolo, Il canone dei cantautori italiani. La letteratura della canzone d’autore e le scuole dell’età, Lanciano: Carabba, 2017. |
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