Fabrizio De André

Di Francesco Ciabattoni (Georgetown University) (Pubblicato per la prima volta, in inglese, il 02 marzo 2019 come “Fabrizio De André”. The Literary Encyclopedia. https://www.litencyc.com/php/speople.php?rec=true&UID=14134)

Nel pantheon dei cantautori italiani Fabrizio De André potrebbe essere paragonato a Prometeo, che ha donato all’umanità il fuoco, un dono che ha permesso al genere umano di creare l’arte. Molti cantautori, a partire dagli anni Sessanta, hanno preso una scintilla dalla fiamma di De André, che l’aveva a sua volta presa da Georges Brassens, Jacques Brel, Leonard Cohen e altri. De André, a volte aspramente criticato per la sua tendenza a riutilizzare cellule testuali o melodiche, o per aver tradotto, riadattato o appropriato canzoni precedenti, era però sempre in grado di produrre, quale che fosse il punto di partenza, canzoni nuove e originali. La scena musicale di Genova (De André nacque nel quartiere residenziale di Pegli) era fra le più attive e innovative negli anni Sessanta, e si potrebbe dire che la canzone d’autore italiana sia nata lì, nei luridi vicoli dietro il porto industriale, quasi una porta sul Mediterraneo, come suggerisce l’etimologia latina della città “janua” [porta].

Il padre di Fabrizio, Giuseppe, si era laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Torino e aveva intrattenuto scambi intellettuali con eminenze culturali dell’Italia pre-guerra, fra cui Benedetto Croce (Viva 10). Attivista antifascista sotto il regime di Mussolini e durante la Seconda Guerra Mondiale, Giuseppe lavorò a Genova come educatore, politico (fu stato vice-sindaco del capoluogo ligure come esponente del Partito Repubblicano), imprenditore (ricoprì incarichi dirigenziali presso lo zuccherificio Eridania e presso la casa discografica Karim, che poi produsse i primi album di Fabrizio) ed editore (fu nel comitato di redazione di giornali come Il Resto del Carlino e La Nazione). Nel 1942 Giuseppe De André decise di trasferire la famiglia a Revignano d’Asti, un piccolo centro del Piemonte, per mitigare le gravi conseguenze della guerra. Qui il piccolo Fabrizio incontrò persone che divennero parte integrante della sua crescita e che in seguito avrebbero ispirato canzoni come “Ho visto Nina volare” (1996). Sebbene i De André si fossero ritrasferiti a Genova dopo la guerra, continuarono a trascorrere le estati a Revignano per molti anni. Fabrizio frequentò le scuole cattoliche e pubbliche a Genova con risultati poco brillanti, il che era fonte di grande preoccupazione sia per il padre che per la madre, Luisa Amerio. Il carattere ribelle di Fabrizio e il suo rendimento scolastico indisciplinato (si iscrisse prima a Medicina, poi a Lettere e infine a Giurisprudenza senza mai conseguire la laurea) misero a dura prova per anni il rapporto con il padre, fino alla riconciliazione dopo la traumatica esperienza del rapimento di Fabrizio in Sardegna nel 1979. I primi risultati musicali di De André avvengono nel 1958 con “Nuvole barocche” e “E fu la notte”, ma il primo brano di vero successo è “La ballata del Miché”, scritta nel 1960 con Clelia Petracchi.

Nel 1962 Fabrizio sposa Enrica Rignon, soprannominata Puny, che nello stesso anno dà alla luce Cristiano, oggi apprezzato cantautore. La coppia si separa e nel 1974 Fabrizio inizia una relazione con la cantante Dori Ghezzi, dalla quale nel 1977 nasce Luisa Vittoria, detta Luvi, che diventerà a sua volta un’apprezzata musicista. De André matura in nel fertile milieu dei cantautori genovesi, alcuni hanno qualche anno in più di lui e ammirano la letteratura francese. Sebbeneun po’ tutti condividano un’aria da poète maudit, la produzione di Fabrizio si distingue da quella di Gino Paoli (1934), Luigi Tenco (1938-1967), Umberto Bindi e Bruno Lauzi (1937-2006) per i suoi marchi di fabbrica: uno sguardo anarchico sulle storie di tutti i giorni, lo stile dichiaratamente letterario dei testi e un senso di malinconica spensieratezza nello spirito dello Spleen baudelairiano. Tra i suoi temi preferiti ci sono amori perduti, ingiustizie sociali e le vite ordinarie dei poveri e dei derelitti (“La città vecchia” è un collage dell’omonima poesia di Umberto Saba e della canzone “Le bistrot” di Georges Brassens). Spesso accompagnandosi con la chitarra, il giovane De André cantava i delitti passionali di amanti gelosi (“La ballata del Miché“), di amanti disillusi (“Amore che vieni amore che vai“, “Canzone dell’amore perduto“), prostitute e donne vittime di una società patriarcale (“Via del campo“, “Fila la lana”), donne malvagie e vicende tragiche (“La ballata dell’amore cieco”, che riscrive il topos medievale del cuore mangiato); “Delitto di paese”, tratto da “L’assassinat” di Brassens), e le zone d’ombra ai margini della società (“Il fannullone”, testo di Paolo Villaggio). Alcuni di questi temi, insieme all’attenzione di De André per la vita nei bassifondi e per gli atteggiamenti antiborghesi, sono un’eredità del suo interesse per gli chansonniers francesi e francofoni come Boris Vian, Jacques Brel e George Brassens, oltre che per i suoi colleghi genovesi.

La notorietà di De André presso un pubblico più vasto inizia con la ballata “La canzone di Marinella”, che pur essendo ispirata da un tragico fatto di cronaca, ha il tono di una favola: una giovane donna che si innamora e paga il suo amore con la vita. Il successo di questo brano si ebbe grazie all’interpretazione di Mina, già star della musica leggera italiana, che la incise nel 1964. Una delle ballate più famose di De André è “Bocca di rosa“, nome che evoca luoghi poetici famosi – dal Romanzo della rosa al Fiore (forse di Dante), a Shakespeare e Gertrude Stein – in cui la rosa è simbolo dell’oggetto del desiderio erotico, che va goduto finché è maturo. La ballata racconta la storia di una donna sessualmente disinibita che si trasferisce nel paesino di Sant’Ilario–oggi alla periferia di Genova–e seduce in serie gli uomini sposati del paese. Le mogli, non contente delle sfrontate trasgressioni di Bocca di rosa, la denunciano ai carabinieri. Viene quindi espulsa dalla comunità e scortata alla stazione ferroviaria da “quattro gendarmi / con i pennacchi e con le armi”. La conclusione ironica è che, essendosi diffusa la notizia dell’espulsione di Bocca di rosa, gli uomini del paese vicino alla ferrovia si stanno già preparando ad accoglierla: si riuniscono alla stazione ferroviaria – “chi manda un bacio chi getta un fiore” – con la benedizione delle autorità del paese. La canzone si chiude con un sorriso raro per De André quando  

Persino il parroco che non disprezza
fra un miserere e un’estrema unzione
il bene effimero della bellezza
la vuole accanto in processione.
E con la Vergine in prima fila
e Bocca di rosa poco lontano
si porta a spasso per il paese
l’amore sacro e l’amor profano.  

Questa visione liberatoria dell’amore e la parodia pungente della piccola borghesia italiana sono tipiche della scrittura di De André, ed sono rese ancora più incisive dalla voce baritonale di De André e dal suo atteggiamento irriverente. De André amava collaborare e citare o riscrivere testi e musiche preesistenti. Dalla collaborazione con il poeta Riccardo Mannerini nascono canzoni come “Il cantico dei drogati” da Tutti morimmo a stento (Bluebell Records, 1968), un album il cui tema principale è la morte e i cui protagonisti sono ragazze sfruttate, individui emarginati e vittime di guerra: “Noi che invochiamo pietà siamo i drogati”, “Recitativo”). “Le passanti” è una cover di una canzone di Brassens, che a sua volta aveva musicato una poesia di Antoine Pol del 1918 (Ciabattoni 76). All’origine della catena, però, c’è una poesia di Charles Baudelaire: “À une passante” da Les Fleurs du mal, che De André certamente conosceva. In effetti, fin dalla sua prima produzione, i testi di De André si ispirano a modelli letterari riconoscibili come Pierre de Ronsard e François Villon. “Valzer per un amore” si ispira a “Quand vous serez bien vieille” di Ronsard e il suo motivo musicale è preso in prestito dal “Valzer campestre” di Gino Marinuzzi, mentre “La ballata degli impiccati” è tratta da “La ballade des pendus” di Villon. Lo stesso De André ha più volte dichiarato che autori come Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire, Raimbaut de Vaqueiras, Jaufré Rudel e Cecco Angiolieri sono tra i suoi preferiti (Pistarini Sassi, 29, 111). Nel 1968 De André musicò il famoso sonetto antipatriarcale, antipaterno e caustico di Cecco “S’io fosse foco arderei lo mondo“.

De André ha scritto molte altre canzoni nello stile di vecchie ballate. “Geordie” è tratta da una ballata del XVI secolo inclusa nella raccolta di Francis James Child (English and Scottish Popular Ballads, 1882, folk ballad n. 209) che era già stata adattata in una performance folk di Joan Baez(Joan Baez in Concert, Vanguard Records 1962). “Nell’acqua della chiara fontana” rivisita una pastorella medievale (si vedano i saggi di La Via, Carrai, Guastella e Stella in Guastella e Marrucci e in Guastella e Pirillo). Alcune canzoni di De André sono nate dalla proficua collaborazione con i colleghi cantautori Francesco De Gregori (“La cattiva strada”, “Canzone per l’estate”, “Oceano” e “Dolce luna”) e Massimo Bubola (“Una storia sbagliata” [1980], “Rimini” [1978] e “Don Raffae'”[1990], quest’ultima canzone cela un riferimento a Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata, la nuova organizzazione mafiosa sorta a Napoli negli anni Ottanta). Altre canzoni erano cover o adattamenti di Leonard Cohen (“Suzanne”) o Bob Dylan (“Via della povertà”, da “Desolation Row”, di cui De Gregori è coautore). Sull’onda delle rivoluzioni politiche e culturali degli anni Sessanta – in Italia e all’estero – molte canzoni di De André trasmettevano messaggi di anticlericalismo, antimilitarismo e anarchismo che la società italiana in trasformazione desiderava ascoltare e consumare.  

Come De André stesso ha dichiarato: “Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’illusione di poter partecipare in qualche modo a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane”  (cit. in Romana). “Terzo intermezzo” (1968) offre uno spaccato dei sentimenti pacifisti di De André basati sulla cruda osservazione della realtà: “La polvere il sangue le mosche e l’odore / per strada fra i campi la gente che muore / e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è”. “Il testamento” (1966) prende in giro con tono amaramente irriverente un insieme di figure borghesi ipocrite. Un uomo morente elenca una serie di regali per le persone che gli sono state insinceramente vicine:

Per quella candida vecchia contessa
che non si muove più dal mio letto
per estirparmi l’insana promessa
di riservarle i miei numeri al lotto
non vedo l’ora di andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati.

La guerra di Piero” (1964) racconta la storia di un soldato la cui esitazione nell’uccidere “un uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore” gli costa la vita. Elementi di questa canzone provengono da una varietà di sottotesti che includono Rimbaud, Curzio Malaparte, Italo Calvino e John McCrae (Ciabattoni 83-89). Uno degli LP più famosi di De André, Non al denaro non all’amore né al cielo (Editori Associati 1971), è un adattamento dell’ Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Gli epitaffi che compongono l’antologia di Masters diventano gioielli musicali, testi con le voci dei dimenticati e degli sconfitti, le cui ultime parole riassumono l’ingiustizia ma anche la bellezza della loro esistenza. Anche in questo caso, altri artisti (Giuseppe Bentivoglio, Nicola Piovani) hanno contribuito alla scrittura dei pezzi dell’album. De André ha basato il suo adattamento delle poesie di Masters sulla traduzione della scrittrice Fernanda Pivano, spesso ampliando e universalizzando i testi. “Un blasfemo” riscrive “Wendell P. Bloyd”, ma espunge il nome del protagonista, denunciando amaramente il bigottismo e la vigliaccheria del potere istituzionalizzato nei confronti di un bestemmiatore: “non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte”. Se, da un lato, De André criticava aspramente l’ipocrisia bigotta della società italiana, dall’altro, le sue canzoni sono spesso intrise di una religiosità autentica che sottolinea il lato umano di Dio. Nell’album La buona novella (Produttori Associati, 1970), una narrazione delle vite di Gesù e Maria basata sui vangeli apocrifi, il cantautore introduce uno spirito religioso sovversivo che vede Gesù come “il più grande rivoluzionario della storia” (Pistarini Sassi 116) che si spera possa “salvare il cristianesimo dal cattolicesimo” (Ansaldo 91). I testi di De André sono costantemente tratti da drammi della vita reale del suo tempo. Nell’Italia antecedente alla legge sull’aborto, scrive di giovani donne incinte rifiutate dalla loro comunità (“Rimini” dall’album omonimo del 1978). Negli anni del terrorismo, rivisita la politica italiana attraverso la metafora dei nativi americani (“Coda di lupo” del 1978). In “Sally”, la storia di una giovane donna che non segue le regole della società, allude alle droghe illegali e alla violenza, mescolando suggestioni di Gabriel García Márquez e Alejandro Jodorowsky. Anche l’esperienza traumatica del rapimento del cantautore e della moglie Dori Ghezzi, avvenuto nel 1979 ad opera di banditi sardi, ha trovato spazio nella sua scrittura. Dopo mesi di prigionia Dori fu liberata, poi anche Fabrizio, che in seguito rielaborò l’esperienza in “Hotel Supramonte” (1981). Gli attacchi di De André all’establishment e allo stile di vita borghese appaiono evidenti in “Canzone del Maggio” (1973). Il testo, un adattamento di “Chacun de vous est concerné” di Dominique Grange, descrive il movimento studentesco e le proteste da un punto di vista radicale:

Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le pantere
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buonafede
massacrare sul marciapiede
anche se ora ve ne fregate
voi quell giorno, voi c’eravate.

“Canzone del maggio” fa parte di Storia di un impiegato (1973) (vedi Ciabattoni 2021), in cui De André affronta il difficile tema politico del terrorismo degli anni di piombo e mette in forma canzone e di concept album la sua visione del fenomeno, che sarebbe stato ancora lungo e denso di conseguenze fino ai primi anni ’80.

La frenesia del capitalismo e i valori patriarcali della famiglia sono pure sotto mire in “Ottocento” (1990), un brano musicalmente ironico con i toni di un Lied pseudo-tedesco. L’anticonformismo di De André non si limita ai testi, ma si esprime spesso nelle scelte musicali. Negli stili rock e pop dominanti alla fine degli anni Sessanta, gli arrangiamenti di Gian Piero Reverberi, con l’uso di strumenti dell’orchestra classica, aggiungono un suono non convenzionale al suo album Vol. 1 del 1967 (Liperi 253). Ciononostante, egli considerava il testo di primaria importanza, dichiarando che “la canzone è un testo cantato, poi la musica può essere più o meno bella, tanto meglio se è bella, ma deve accordarsi soprattutto con il testo” (Fasoli 59). De André ricorreva spesso anche al canto nei vari dialetti italiani: Il napoletano (“Don Raffae'” in Le nuvole, Ricordi Fonit-Cetra 1990), il sardo (“Zirichiltaggia”, in Rimini, Ricordi 1978) e il dialetto della sua Genova (Creuza de mä [Mulattiera del mare], Ricordi 1984). Il ricorso al dialetto era tanto un espediente espressivo quanto un’adesione ideologica alla lingua e alle problematiche dei deboli e dei subalterni. De André ha sempre scritto a sostegno (e a voce) degli oppressi contro gli oppressori, fino a esaltare quasi come una figura cristologica un pescatore che dà da mangiare a un assassino affamato e poi mente alla polizia come forma di dissenso contro l’ordine costituito (“Il pescatore” 1970). Tali dichiarazioni estreme di partigianeria contro il potere istituzionale sono state comprensibilmente criticate come deandreismo (Carrera 69), manifestazione di un certo ribellismo borghese alla moda (De André era nato da una famiglia benestante della borghesia genovese). Tra i coautori di De André vanno ricordati anche il paroliere Giuseppe Bentivoglio, il comico e autore Paolo Villaggio, il direttore d’orchestra Gian Piero Reverberi e il premio Oscar Nicola Piovani. Il tour del 1979 e il doppio LP live con la Premiata Forneria Marconi (PFM) aprono nuove strade allo stile musicale di De André, aprendolo al rock progressivo e alla musica etnica. Con Mauro Pagani, De André concepisce un nuovo progetto per un album scritto interamente in dialetto genovese e con strumenti etnici del Mediterraneo (Creuza de mä, 1984). Le canzoni di questo album sono incentrate sulla vita delle prostitute, dei capitani di mare, dei marinai e dei creditori: tutta la vita bassa di Genova e le sue tradizioni, raccontate con un colore realistico e una partecipazione appassionata. Creuza de mä ha vinto diversi premi importanti, ha ricevuto recensioni entusiastiche ed è stato salutato come una pietra miliare della musica etnica e mondiale sia dalla critica che dal grande pubblico.

I riferimenti aristofanei de Le nuvole (1990) mescolano temi anticapitalistici e desiderio di libertà dal potere istituzionale (“Ottocento”). L’album ha una coda di canzoni a tema mediterraneo (“Mégu megún” [Dottore, dottore] e “‘Â çímma“, che si riferisce a un piatto di vitello ripieno in dialetto genovese) di cui De André è coautore insieme al cantautore genovese Ivano Fossati. Altre influenze letterarie da Mario Luzi, Alvaro Mutis ed Elias Canetti si possono apprezzare nel suo ultimo album, Anime Salve (1996), anch’esso scritto con Ivano Fossati e Mauro Pagani (Ciabattoni 69-92). De André leggeva Mutis in italiano, come dimostra la sua copia sottolineata e annotata della Summa di Maqroll il gabbiere (Einaudi, 1993), che figura come un importante punto di riferimento in “Smisurata preghiera”. La scrittura e l’interpretazione di Fabrizio De André hanno ampliato e arricchito la gamma espressiva della canzone d’autore italiana. Il suo interesse per la letteratura e per gli emarginati sociali ne nobilitò la natura. Lo stesso De André, tuttavia, rifiutò l’etichetta di “poeta” a favore di quella di cantautore (De André, intervista). Innovando, se non fondando, il genere in Italia, la canzone d’autore di De André non ha bisogno di essere assimilata alla poesia per ricevere dignità estetica. È una forma d’arte con un valore proprio.

OPERE CITATE

– Ansaldo, Marco. Le molte feritoie della notte. I volti nascosti di Frabrizio De André. UTET, 2015.Carrera, – Alessandro. Il ricatto del godimento. QuiEdit, 2012.
– Ciabattoni, Francesco. La citazione è sintomo d’amore. Cantautori italiani e memoria letteraria. Carocci, 2016.
– Ciabattoni, Francesco. Storia di un impiegato, Treccani online, 2021.
– De André, Fabrizio, interview. “Quando De André disse: ‘Io un poeta? Sono un cantautore.’” September 20, 2013. http://www.famigliacristiana.it/video/quando-de-andre-disse-sono-un-cantautore-non-un-poeta.aspx.
– Fasoli, Doriano (ed.). Fabrizio De André, da Marinella a Creuza de Ma. Edizioni associate, 1989.
– Guastella, Gianni, and Marrucci, Marianna. Da Carlo Martello al Nome della Rosa. Musica e letteratura in un medioevo immaginato. Semicerchio. Rivista di poesia comparata XLIV, 2011/1.
– Guastella, Gianni and Pirillo, Paolo. Menestrelli e Giullari. Il medioevo di Fabrizio De André e l’immaginario Medievale nel Novecento Italiano. Edifir, 2012.
– Liperi, Felice. Storia della canzone italiana. Rome, Rai Radiotelevisione italiana Editori periodica e Libreria, 2011.
– Pistarini, Walter, and Sassi, Claudio. De André talk: le interviste e gli articoli della stampa d’epoca. Coniglio, 2008. – Romana, Cesare G. Fabrizio De André. Amico fragile. Arcana, 2009.
– Viva, Luigi. Non per un dio ma nemmeno per gioco: vita di Fabrizio De André. Feltrinelli, 2000.

Citazione dell’originale in inglese: 
Ciabattoni, Francesco. “Fabrizio De André”. The Literary Encyclopedia. First published 02 March 2019 [https://www.litencyc.com/php/speople.php?rec=true&UID=14134]        

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