Jovanotti (Lorenzo Cherubini)
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Di Claudio Giunta (Università di Trento).
There are no second acts in American lives (Francis Scott Fitzgerald). Nelle vite italiane invece sì. Tanto che l’autore di questa canzone non ha cambiato soltanto stile, temi, look, ma persino nome. Per quelli che hanno più di, diciamo, 35 anni, è ancora Jovanotti, il nomignolo scemo/divertente che si era scelto a vent’anni, quando cominciò a scrivere canzoni (è un gioco di parole: Giovanni è l’equivalente di John, e la parola giovanotti in italiano vuol dire youngsters; ma il nome si può anche spezzare così: Joe Vanotti, alla italo-americana…), mentre per quelli nati dopo (e per lui stesso, oggi che di anni ne ha oltre cinquanta, e il vecchio nomignolo Jovanotti lo imbarazza un po’) è Lorenzo Cherubini, o semplicemente Lorenzo.
La metamorfosi, in questi trent’anni, è stata radicale, molto probabilmente la più radicale che si sia vista nel campo della musica leggera italiana contemporanea. Negli anni Ottanta e Novanta, il cantante Jovanotti è stato l’emblema del pop chiassoso, disimpegnato, elementare tanto nelle melodie quanto nelle parole (e per farsi un’idea bastano i titoli: Go Jovanotti Go, Gimme Five, Vai così, La mia moto, Spacchiamoci le orecchie, Una tribù che balla). Ma la maturità anagrafica ha portato a Lorenzo Cherubini la maturità artistica. Negli ultimi quindici anni ha scritto canzoni completamente diverse, molte delle quali molto belle, alcune seriamente riflessive (Fango, La terra degli uomini, Ora, E non hai visto ancora niente), altre euforiche, solari (Megamix, Il più grande spettacolo dopo il Big Bang, È per te, L’estate addosso, Oh, vita!, Le canzoni).
Mezzogiorno è un ibrido. Il tema non è un tema tipico da canzonetta (il tempo che passa, i cambiamenti che porta con sé), ma lo svolgimento del tema ha i toni dell’inno, non quelli dell’elegia.
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