Mina
Busto Arsizio (Varese), 1940 –
Di Jacopo Tomatis (Università di Torino)
Pochi personaggi raccontano la storia culturale del secondo Novecento italiano come Mina, pochissimi hanno saputo attraversarlo da protagonisti, coniugando il successo di pubblico con l’approvazione della critica e accedendo allo status di vera «icona pop» (Spaziante 2016). L’unicità del percorso artistico di Mina e, allo stesso tempo, le «identità plurime» (ibid.) che la cantante ha incarnato nel corso dei suoi oltre sessant’anni di carriera rendono difficile interpretarla attraverso i modelli più tipici con cui leggiamo la storia della canzone italiana. Mina non è una cantautrice, ma il suo ruolo è stato fondamentale nell’affermazione della canzone d’autore, grazie alle interpretazioni di brani di Gino Paoli, Fabrizio De Andrè, Ivano Fossati, Enzo Jannacci. Non è una cantante jazz, ma ha lavorato con i principali jazzisti italiani, cimentandosi spesso con gli standard. Non è la tipica voce “all’italiana”, lirica e impostata, e ha partecipato solo due volte (e malvolentieri, nei primissimi anni della sua carriera) al Festival di Sanremo; eppure ha offerto un contributo enorme al perpetuarsi del canone della canzone popular napoletana e nazionale, interpretandone i classici per il pubblico televisivo ed esportandoli per quello globale. Non ha mai preso posizioni politiche esplicite, ma è divenuta ispirazione per le femministe e – da un certo momento in poi – anche icona gay. È stata opinionista per un quotidiano (“La Stampa”), presentatrice televisiva di una RAI elegante e raffinata, testimonial per i “caroselli” storici di una nota marca di pasta e smaterializzata voce super-pop di jingle pubblicitari del ventunesimo secolo, smaterializzata voce super-pop di jingle pubblicitari, imprenditrice discografica, attrice per film giovanili… È stata – ed è – per quasi tutti, semplicemente, la cantante italiana più grande di sempre.
La carriera pubblica di Mina dal debutto al definitivo ritiro dalle scene “fisiche” copre un ventennio esatto, dal 1958 al 1978. Non si tratta di vent’anni qualsiasi: di fatto, il suo periodo di attività coincide con il momento di maggiore vivacità della popular music nazionale, nel quadro di un generale processo di modernizzazione della società italiana che investe pratiche e consumi di tutta la popolazione.
Mina comincia la sua carriera neanche ventenne (è nata nel 1940 a Busto Arsizio, ma si è presto trasferita a Cremona) nel nascente filone degli “urlatori”, ovvero i primi emuli del rock’n’roll americano. Alla fine dei cinquanta il mercato della musica giovanile in Italia è ancora in fase di costruzione, e Mina incide sia brani in inglese (sotto lo pseudonimo di Baby Gate), sia in italiano. Il 1958, anno del suo debutto, vede anche la vittoria di Domenico Modugno al Festival di Sanremo con “Nel blu dipinto di blu”, e rappresenta un momento di profondo svecchiamento dell’offerta musicale nazionale, soprattutto grazie all’introduzione del juke-box e del disco a 45 giri. Proprio questi supporti sono destinati a diventare oggetti di consumo privilegiato per la nascente comunità giovanile (Tomatis 2019): Mina è una delle voci e dei corpi “nuovi” che traghettano la popular music italiana nella modernità (Valentini 2017). Basta osservarla in una delle sue prime apparizioni sullo schermo, nel film Urlatori alla sbarra (regia di Lucio Fulci, 1960) per misurare tutta la distanza tra lei e le dive di appena pochi anni prima: Mina, con i capelli corti, in pantaloni e maglia nera attillata che lascia scoperte le spalle, si dimena cantando “Nessuno” affiancata da Adriano Celentano (Prato 2014), timbrando le “u” alla maniera degli americani ma allo stesso tempo già mostrando l’originalità di un timbro e di modo di stare sul tempo che è suo, e suo soltanto.
La fama di “cantante da juke-box” che l’accompagna in questi primi anni è tuttavia limitativa, nonostante Mina abbia contribuito come pochi a definire i confini della nuova musica giovanile. La sua versione de “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, pubblicata nello stesso 1960, già punta in un’altra direzione (Fabbri 2017): con l’affermazione del genere dei cantautori – perlopiù dominato da figure maschili (Tomatis 2016) – Mina di fatto codifica un genere parallelo e complementare nella canzone italiana. Questa «canzone sofisticata» (Fabbri 2008, p. 113), di ispirazione americana, si impone presso il grande pubblico anche grazie alle molte apparizioni in televisione della cantante (Studio Uno nella prima metà dei Sessanta; Sabato sera dal 1967); e – caso raro nella storia della canzone italiana – incontra anche il favore della critica e degli intellettuali (si può ad esempio leggere la rassegna di interventi in Fabbri e Pestalozza 1998; su Mina in tv: Haworth 2015; Mosconi 2014).
Gli anni Sessanta sono dunque il decennio della definitiva consacrazione di Mina anche a livello internazionale, grazie a tour in tutto il mondo, dal Giappone al Sudamerica (Haworth 2018b). La sua fama supera anche il temporaneo allontanamento dalla Rai seguito, nel 1963, allo scandalo della relazione con Corrado Pani, sposato, e della conseguente gravidanza (Haworth 2017; 2018a): una vicenda che, se dimostra quanto conservatrice e moralista fosse la società italiana dell’epoca, concorre a rafforzare l’immagine di Mina come donna indipendente e pienamente moderna.
Nel 1967 Mina compie un importante passo di emancipazione dalle dinamiche dell’industria musicale italiana fondando insieme al padre, a Lugano (dove poi si trasferirà definitivamente) l’etichetta PDU (Platten Durcharbeitung Ultraphone; Vita 2019, pp. 212-218). La raggiunta autonomia non modifica sostanzialmente la sua produzione. Da una parte, Mina rimane sintonizzata con le novità musicali nazionali e internazionali, interpretando ad esempio i brani di Lucio Battisti e seguendo nella scelta del repertorio logiche eminentemente pop. D’altro canto però, a partire dalla seconda metà del decennio, la popular music sta attraversando una profonda rivoluzione, sulla scia dell’affermazione dell’album come formato privilegiato d’ascolto e del processo di “artisticizzazione” della musica rock innescato dai Beatles (che pure passeranno per la voce di Mina) e da altri gruppi inglesi e americani. Mina, pur mantenendo una solida base di pubblico (rafforzata negli anni settanta da altre apparizioni televisive, ad esempio Milleluci con Raffaella Carrà; Mosconi 2019) è ormai un’esponente della “vecchia guarda”, la diva raffinata che si rivolge a un pubblico adulto. Nonostante ciò, il suo astro non sembra appannarsi come quello di altri protagonisti del decennio precedente: Mina è ormai la voce italiana per eccellenza, il volto familiare della televisione pubblica; la sua proposta musicale accede ora a tutti gli effetti allo statuto di “classico” intoccabile.
La parabola pubblica di Mina si interrompe nel 1978 con una serie di concerti alla Bussoladomani, in Versilia, oggetto di un fortunato doppio album live (Mina Live ’78) che esce a dieci anni esatti da Mina alla Bussola dal vivo, celebrazione del suo primo decennio di carriera. Da questo momento in poi la cantante sceglie di ritirarsi dalle scene, non apparendo più in pubblico né live né in video. È certo non privo di significato che questa “scomparsa” avvenga in concomitanza di uno dei nodi periodizzanti della storia della popular music (e della cultura italiana tutta), ovvero al culmine degli “anni del riflusso”, alla simbolica soglia degli anni ottanta, nel momento del definitivo collasso del circuito alternativo del post-Sessantotto e della profonda ridefinizione del profilo e degli attori dell’industria musicale nazionale, con la fine del monopolio Rai e il primo emergere della radiotelevisione privata (Tomatis 2019).
Sebbene “assente”, Mina in realtà continua a produrre dischi a ciclo continuo, mantenendo il ritmo di un album all’anno, con poche eccezioni, fino a oggi. Per tutto questo periodo affida la sua immagine a occasionali fotografie ufficiali e alle copertine degli album, spesso opera del creativo Mauro Balletti, in cui più che vederla la intuiamo, dietro occhiali fumé o rielaborata, distorta in esseri androgini (Salomé, 1981; Rane supreme, 1987) o meccanici (Sorelle Lumière, 1992), trasformata in quadro (Ti conosco mascherina, 1990; Caterpillar, 1991) o in fumetto (Mina Celentano, bestseller del 1998). È però, quella di Mina, una presenza-assenza che contribuisce non poco alla sua definitiva consacrazione come icona pop: per sempre congelato nell’immagine televisiva degli anni sessanta-settanta, il corpo di Mina non invecchia. A differenza delle altre dive sue “rivali” – Patty Pravo, Ornella Vanoni, Milva – la sua immagine pubblica non deve confrontarsi con il peso del passato, con le nuove generazioni, con i segni dell’età. La voce, dal canto suo, non sembra perdere smalto – come confermano quelle che sono al momento le sue ultime prove, ovvero il disco in coppia con Ivano Fossati (Mina Fossati, 2019) un nuovo canzoniere di classici nazionali (Italian Songbook, 2020) e l’onnipresente spot televisivo della compagnia telefonica Tim. E se la voce, più di ogni altra cosa, mantiene un legame con il corpo (anche in quanto sede di tropi sessuali: Middleton 2006), allora si intuisce la potenza semiotica della “sparizione” di Mina; diva eternamente classica, eternamente giovane, che lascia a disposizione del pubblico solo un simulacro – la voce “incorporea” del corpo di Mina, assente e rivoluzionario.
Bibliografia
– Fabbri, Franco 2017, «Il cielo in una stanza», in L’ascolto tabù. Le musiche nello scontro globale, il Saggiatore, Milano, pp. 181‐198 [prima versione in Fabbri e Pestalozza 1998, pp. 23-40)
– Fabbri, Franco e Pestalozza, Luigi (a cura di) 1998, Mina. Una Forza Incantatrice, Euresis, Milano
– Haworth, Rachel 2015, «Making a Star on the Small Screen: The Case of Mina and RAI», Journal of Italian Cinema & Media Studies, 3(1-2), pp. 27-41
– Haworth, Rachel 2017, «Scandal, Motherhood and Mina in 1960s Italy», Modern Italy 22(3), pp. 248-258
– Haworth, Rachel 2018a «Scandal as Medium of the Celebritization Process: Exploring the “Mina as Mother” Image in the Context of Post-War Italian Culture», Mediascapes Journal 11, pp. 29-41
– Haworth, Rachel 2018b, «Mina as Transnational Popular Music Star in the Early 1960s», Modern Languages Open 1, pp. 1-16
Middleton, Richard 2006, Voicing the Popular. On the Subjects in Popular Music, Routledge, London‐New York.
– Mosconi, Elena 2014, «Mina: la forza di una performer audiovisiva», in Roberta Carpani, Laura Peja, Laura Aimo (a cura di), Scena madre. Donne, personaggi e interpreti della realtà. Studi per Annamaria Cascetta, Vita e Pensiero, Milano
– Mosconi, Elena 2019, «Milleluci per due star della televisione italiana. La strana coppia Mina-Raffaella Carrà», in Arabeschi 13, pp. 190-197
– Prato, Paolo 2014, «Virtuosity and Populism: The Everlasting Appeal of Mina and Celentano», in Franco Fabbri e Goffredo Plastino (a cura di), Made in Italy: Studies in Italian Popular Music, Routledge, London & New York, pp. 162-171
– Spaziante, Lucio 2016, «Mina, l’icona mutante», in Icone pop:identità e apparenze tra semiotica e musica, Mondadori, Milano.
Tomatis, Jacopo 2016, «Rediscovered Sisters: Women (and) Singer-songwriters in Italy», in The Singer-Songwriter in Europe: Paradigms, Politics and Place, a cura di Stuart Green e Isabelle Marc, Routledge, Ashgate Popular and Folk Music Series, London and New York, pp. 79-91.
– Tomatis, Jacopo 2019, Storia culturale della canzone italiana, il Saggiatore, Milano
– Valentini, Paola 2017, «Mina: Narrative and Cinematic Spectacle of the Italian Woman in the 1960’s», in Virginia Picchietti e Laura Salsini (a cura di), Writing and Performing Female Identity in Italian Culture, Palgrave Macmillan, New York, pp. 81-104.
– Vita, Vito 2019, Musica solida. Storia dell’industria del vinile in Italia, Miraggi, Torino.
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