Roberto Vecchioni

(Carate Brianza, 1943 – )

Di Luca Bertoloni, Università di Pavia

All’interno del panorama cantautorale italiano, un ruolo di primo piano spetta senza dubbio a Roberto Vecchioni, considerato da molti studiosi come uno dei padri fondatori della canzone d’autore italiana (Talanca 2017: 206-210). In realtà, dal punto di vista cronologico, Vecchioni è soltanto l’ultimo dei padri fondatori del genere a debuttare come cantautore, poiché, al momento del suo esordio nel mondo musicale, sul finire degli anni Sessanta (quando sia Fabrizio De André che Francesco Guccini avevano già pubblicato i dischi d’esordio, ed iniziavano a farsi strada nel mondo musicale con brani come “Bocca di rosa”, “La canzone di Marinella”, “Noi non ci saremo” e “Auschwitz”) lavora più che altro come paroliere per altri interpreti, soprattutto femminili (come Gigliola Cinquetti, Iva Zanicchi o Ornella Vanoni), oppure per gruppi (i Nuovi Angeli, per i quali firma la hit “Donna felicità”, 1972, o gli Homo Sapiens, per i quali scrive con Renato Pareti “Oh! Mary Lou” nel 1974). Il suo esordio come cantautore risale, in leggero ritardi rispetto agli altri due illustri colleghi, al 1971, anno in cui pubblica il primo album da lui interamente scritto e interpretato con le musiche firmate anche da altri artisti, tra cui Andrea Lo Vecchio, con il quale il cantautore aveva già collaborato sul finire degli anni Sessanta, e con il quale firmerà la musica di alcune sue importanti hit), Parabola, che contiene “Luci a San Siro”, uno dei brani più iconici del suo repertorio, a cui ancora oggi, a cinquant’anni dalla sua pubblicazione, il cantautore milanese viene ancora associato.

Architettura di un cantautore atipico

Vecchioni approda alla canzone d’autore dopo un percorso professionale piuttosto singolare, che per altro caratterizzerà tutta la sua produzione, il suo pensiero e la sua poetica: conseguita la laurea in Lettere Classiche, vive una breve esperienza di docenza universitaria come assistente di Storia delle Religioni, per poi approdare all’insegnamento di Latino e Greco nei Licei Classici. Nonostante il successo musicale, arrivato con gli anni Settanta, il cantautore milanese continuerà la professione di docente accanto a quella di interprete e cantautore, per questo si guadagnerà nel settore il soprannome di “professore”, che gli resterà affibbiato per tutta la carriera anche una volta terminato questo lavoro.

Con gli anni Settanta, la produzione cantautorale di Vecchioni risulta completamente incentrata sul Vecchioni-uomo (con tutta la sua storia e con le caratteristiche che porta con sé), al quale il Vecchioni-artista cerca in ogni modo di aderire riempiendo i suoi testi di riferimenti culturali: questa usanza, che a breve diventerà un tratto particolarmente riconoscibile del suo stile, prima ancora che la temperie post-modernista raggiungesse la forma-canzone (quindi, con la fine degli anni Ottanta e, soprattutto, l’inizio degli anni Novanta) con la sua tendenza ad uno spiccato citazionismo, in realtà non è un tentativo di ammiccare alla cultura alta inserendo qua e là citazioni colte per dare sfoggio di conoscenza, ma corrisponde ad una precisa idea di cultura, una cultura che non deve essere per pochi, ma va veicolata a tanti, anzi, a tutti. La forma-canzone per Vecchioni, dunque, è uno strumento breve, popolare e immediato per veicolare anche contenuti “alti”, annullando così la differenza tra cultura alta e cultura bassa, e incarnando così l’aspetto più culturale (nel senso ampio del termine) del pop. Per questa ragione, Vecchioni coniugherà sempre nel corso della sua carriera due anime: quella del docente imbevuto di cultura classica, con la necessità di divulgarla il più possibile, e quella del cantante pop, inteso non in senso dispregiativo, ma recuperando il suo significato originale (‘popolare’).

Si spiegano così i tentativi di Vecchioni, molto presenti a inizio carriera, di cercare il successo anche in palcoscenici tutt’altro che prestigiosi per un musicista che vuole essere riconosciuto come uomo di cultura: nel 1973 compone un brano per il Festival di Sanremo, considerato all’epoca l’emblema della canzone commerciale (opposta alla neonata canzone d’autore); nel 1973 partecipa a Canzonissima, e nel 1974 a Un disco per l’estate; nel 1975 invece firma alcune canzoni per bambini, tra cui la sigla del cartone animato “Barbapapà.” In parallelo, inizia a sviluppare tutti i tratti che caratterizzeranno la sua poetica: Il re non si diverte, 1973, primo album firmato da lui integralmente, è un tentativo non ben riuscito di commistione tra il teatro-canzone, genere da poco portato in auge da Giorgio Gaber, e il concept album narrativo, portato in Italia da Fabrizio De André e da Claudio Baglioni tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta; tuttavia, è con l’album successivo – Ipertensione, 1975 – che iniziano a distinguersi tutti gli elementi principali della poetica vecchioniana: il fortissimo autobiografismo, tanto da raccontare la propria vita personale e relazionale, in particolare le proprie dinamiche familiari (“Irene”); i riferimenti a personaggi storici, usati come spunti per parlare di sé (come Marco Polo in “Canzone per Laura”, o Dante in “Alighieri”); la centralità dell’arte poetica, anzi, della poiesis, e del rapporto tra intellettuali eccessivamente colti ed altri più divulgatori (“I poeti”); il tema del doppio (“Canzonenozac”); la ricerca dell’allegoria (“Pesci nelle orecchie”) e altro ancora. Tuttavia, il disco non ha il successo sperato, a differenza del successivo Elisir, 1976, nel quale il professore abbandona il versante recitato (presente invece nell’album precedente – lo  riprenderà nell’ultima fase della carriera) per virare verso nuovi suoni di matrice americana: grazie ad una maggior musicalità, l’album ha un discreto successo, e Vecchioni incomincia ad inserire nel proprio canzoniere brani che diventeranno dei “classici”, sulla scorta delle tematiche già sperimentate nel precedente lavoro (su tutti, “Figlia” e “Velasquez”, immancabili nelle esibizioni live).

Il grande successo con “Samarcanda”
Nel 1977 Vecchioni è dunque un cantautore affermato, e la sua notorietà nel mondo della canzone d’autore è legata sia alla militanza politica (di sinistra), che ai riferimenti culturali presenti nei suoi brani, che tanto piacciono a quei giovani che, come è stato osservato da molti studiosi (Lorenzo Coveri, Lorenzo Renzi, Pier Vincenzo Mengaldo, Paolo Giovannetti su tutti, cfr. Coveri 1996), cercano di colmare la loro “attesa di poesia” con i testi dei cantautori, non trovando nei testi dei poeti contemporanei “veri” qualcosa che sapesse leggere nel profondo la loro interiorità e, soprattutto, la nuova contemporaneità. In quell’anno, Vecchioni riesce a raggiungere finalmente anche il cosiddetto “grande pubblico” attraverso un brano a cui resterà sempre legato nell’immaginario collettivo, “Samarcanda”, contenuto in un omonimo album ricchissimo di suggestioni musicali che spaziano dalla medioevaleggiante introduzione della titletrack, firmata da Angelo Branduardi, al rock progressivo del brano conclusivo dell’album, “L’ultimo spettacolo”, che diventa da subito un’icona della sua produzione perché riesce ad unire un autobiografismo molto personale (il litigio con la moglie Irene, preambolo della separazione) con diversi riferimenti alla cultura alta, in questo caso alla cultura classica (il brano infatti si apre con la descrizione di una nave dei fenici): non stupisce quindi in questo brano la compresenza e la commistione di elementi contemporanei e tratti realistici, come il treno o le sigarette Muratti, con elementi classici (una sorta di “reminiscenza” delle sue letture classiche, cfr. Ciabattoni 2016: 27-35) come l’aedo o la nave del fenicio appunto. Vecchioni raggiunge il grande pubblico con la canzone che dà il titolo all’album, “Samarcanda”, un brano orecchiabile e, in apparenza, immediato, che grazie ad un ritornello coinvolgente e originale entra da subito nella memoria collettiva del grande pubblico, in particolare dei bambini, anche perché il testo sembra a tutti gli effetti il racconto di una fiaba che vede come protagonista una “nera signora”. In realtà, come spiegherà Vecchioni in più occasioni, il testo è tragico, poiché la nera signora è la morte che si prende gioco dell’uomo, e che vince quindi su di esso.

Il successo popolare di Vecchioni, che combina cultura alta e cultura bassa avviene nel 1977, curiosamente proprio un anno dopo il noto “processo” al Palalido di Milano subito da Francesco De Gregori. Il cantautore romano fu accusato dai propri fan di essere “fintamente di sinistra” e dai critici di usare espressioni falsamente poetiche per ammiccare a una cultura che non ha: Vecchioni, colpito da questo episodio, lo narrò proprio in un brano di Samarcanda, “Vaudeville”, nel quale traspare una forte vena polemica nei confronti di quanto accaduto («E spararono al cantautore / in una notte di gioventù / gli spararono per amore / per non farlo cantare più»), in piena coerenza con la sua idea di canzone come strumento per divulgare cultura.

Il successo non dà alla testa al cantautore milanese, che continua imperterrito nei capisaldi della sua poetica, infilando una serie di album uno dietro l’altro in cui le esperienze biografiche (tra cui l’arresto e la permanenza in carcere, in attesa di un processo per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, il matrimonio con la moglie Daria, la nascita degli altri figli, l’esperienza di docente nelle scuole) si saldano con i riferimenti alla cultura, che ormai spaziano dal cinema (protagonista del concept album Hollywood Hollywood, 1982, in cui ritroviamo diversi ambiti e generi da Ejzenstejn a Fellini) alla letteratura (si pensi alla hit “Dentro gli occhi”, ispirata a un racconto di Jorge Luis Borges, ancora una volta sul tema del doppio, oppure a “Gaston e Astolfo”, 1985, che fa mescola riferimenti al poema di Ludovico Ariosto Orlando furioso con uno stornello romano, o a “Per amore mio – gli ultimi giorni di Sancho Panza”, 1991), dal teatro (“Nel regno di Napoli,” 1986, fa riferimento a  “Miseria e nobiltà”, “L’oro di Napoli” e “Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo–l’anima napoletana di Vecchioni, da parte di padre, emerge spesso nei suoi brani) alla cultura classica (“Alessandro e il mare”, 1989).

Una rinnovata giovinezza
Una seconda e più importante svolta nella carriera di Vecchioni risale però agli anni Novanta, periodo che lo porterà ad essere il “professore” che tutti, oggi, conoscono. La svolta può essere circoscritta al 1992, anno in cui il cantautore milanese vince il Festivalbar, con “Voglio una donna”, brano molto orecchiabile dal sound americaneggiante, che per altro generò polemiche per alcuni suoi versi misogini (“Prendila te / quella col cervello / che si innamori di te / la capitana Nemo”) e fu poi inserita in Camper, il primo album live del professore. Vecchioni in più occasioni dovette spiegare che si trattava di una sorta di litote, che era anzi volta a sottolineare la bellezza della femminilità, e non a rimarcare un qualsivoglia tipo di maschilismo; per altro, la bellezza femminile è un topos dell’opera di Vecchioni, almeno da “Figlia” (1976) a “Ma tu” (2018). Il successivo album di inediti, Blumun (1993), gode così di riflesso di un ottimo successo commerciale, anche se nessun brano riesce ad avere la forza trainante del brano presentato al Festivalbar.

Maggior fortuna tocca invece al successivo Il cielo capovolto (1995), forse l’esito migliore di tutta la produzione di Vecchioni degli anni Novanta, nonché uno dei suoi album meglio riusciti di sempre: su musiche che vanno dal sinfonico al rock alla Bruce Springsteen, e su testi che si spingono dall’elegia al colloquiale spinto, Vecchioni canta una lunga elegia d’amore “dedicata alle donne” (Jachia 2018: 112), giocando con alcuni dei suoi modelli privilegiati tra cui Giacomo Leopardi, invocato solo nel titolo de “L’ultimo canto di Saffo” (titolo sia della poesia di Leopardi che della canzone di Vecchioni), Fernando Pessoa, Henri Bergson, ancora una volta Borges e la poetessa greca Saffo. Proprio da da quest’ultima si dipana la lunga riflessione sull’amore contenuta nel disco, che non disdegna mai l’autobiografismo (come nella incipitaria “Le mie ragazze”) e neanche una commistione tra seriosità e ironia (“Il tuo culo e il tuo cuore” ne è un ottimo esempio, oltre che incarnare un altro brano che ha come protagonista, in un modo tutto suo, la femminilità vista da un uomo). In Il cielo capovolto Vecchioni pone una firma definitiva sulla sua poetica, che da ora in avanti sarà incentrata sempre di più sulla scrittura di “lettere d’amore” (“Lettere d’amore”). Lettere d’amore sono infatti buona parte dei testi successivi di Vecchioni, da “Celia de la Serna”, nel quale il cantautore si immedesima nella mamma di Che Guevara, a “Quest’uomo”, lettera di un padre ai propri figli. Vecchioni ancora una volta si spoglia dalle vesti del professore e del cantante per indossare quelle di un padre che “aspetta solo che voi torniate / e tutto il resto è un puttanaio di puttanate”. Da “La stazione di Zima”, straziante “lettera” amorosa nei confronti di un Dio che sta lontano, con la richiesta di lasciargli godere appieno l’umanità, a “Sogna ragazzo sogna”, nella quale, parafrasando il poeta turco Nazim Hikmet, scrive una lunga lettera d’amore sulla bellezza della vita ai propri alunni, cogliendo l’occasione dell’abbandono definitivo dall’attività di docente liceale. La tendenza a scrivere brani sempre più personali, su questa falsa riga, prosegue anche nel primo lavoro degli anni Duemila, Il lanciatore di coltelli (2002), dove spiccano un nuovo brano dedicato ai figli (“Figlio, figlio, figlio”), nel quale la capacità di Vecchioni nel creare testi sincretici, che sfruttano una figuralità metaforica al contempo semplice e fortemente evocativa, raggiunge forse uno dei punti più alti di tutta la carriera:

Chi ti insegnerà a guardare il cielo
fino a rimanere senza respiro?
A guardare un quadro per ore e ore
fino a avere i brividi dentro il cuore
che aldilà del torto e la ragione
contano soltanto le persone
che non basta premere un bottone
per un’emozione.

E “Viola d’inverno”, “lettera” di fronte alla morte, nella quale si elevano tramite una commovente elegia le azioni quotidiane e insignificanti della vita, che assumono grande significato solo grazie all’amore

E allora penserò
che niente ha avuto senso
se non averti amata, amata
in così poco tempo.

Nei due album successivi entra potentemente nella poetica di Vecchioni il dolore, trasfiguratosi nel viaggio purificatore da lui compiuto in Africa (“Rotary club of Malindi”), occasione per toccare con mano la fragilità dell’uomo e le ingiustizie del mondo, nella perdita della madre (“Dimentica una cosa al giorno”) e degli amici (“Amico mio”), e, soprattutto, nella malattia del figlio, che lo porterà a scrivere uno dei brani più intensi e più riusciti del suo repertorio, “Le rose blu”. Il dolore porterà Vecchioni a maturare un nuovo rapporto con Dio, e a passare momenti di difficoltà interiore che lo porteranno ad allontanarsi dal tempo presente (con il disco Io non appartengo più, 2012, nel quale parlerà in prima persona del dolore della sua malattia in “Ho conosciuto il dolore”), prima della pace raggiunta nell’ultimo (ad oggi) lavoro di inediti, L’infinito (2018).

Tra scrittura e Sanremo
Negli anni Novanta, oltre che per la produzione cantautorale Vecchioni si distingue nell’ambito della canzone d’autore anche per il terzo lavoro: lo scrittore. Innanzitutto, egli contribuisce (scrivendone la prefazione) al primo grande lavoro di collezione editoriale di scritti accademici intorno alla forma-canzone, influenzato dai cultural studies e dai neonati popular music studies (Coveri 1996); il suo ruolo è fondamentale in quanto, per primo, conia l’etichetta di “canzone d’arte”, cercando di nobilitare la forma-canzone sulla base di quanto avvenuto, alcuni decenni prima, con il cinema, e inaugurando una sorta di Rinascimento degli studi sulla canzone.

Inoltre, esordisce come scrittore in prosa: dopo due casi sporadici negli anni Ottanta e Novanta, la sua attività si intensifica con il primo romanzo, Le canzoni non le portano le cicogne, 2002, cui segue Il libraio di Selinunte, 2004. Da questo momento in poi, Vecchioni vivrà la narrativa come un altro campo nel quale espletare la propria poetica, dal momento in cui molte delle tematiche affrontate negli album e nei brani vanno di pari passo con quelle dei romanzi e dei racconti. Nello stesso momento, inizia a lavorare come divulgatore della forma-canzone a livello accademico: dopo aver tenuto prima laboratori e poi corsi veri e propri in differenti atenei italiani, nel 2006 approda all’Università di Pavia, dove fino al 2020 terrà l’insegnamento di “Forme di poesia in musica”, nel quale affronta la storia della canzone affrontando, di anno in anno, argomenti monografici differenti.

Nel contempo, il complesso disco Di rabbia e di stelle (2007) lo aveva portato lontano dal grande pubblico, fino al 2011, anno in cui raggiunge forse la sua fama maggiore grazie alla vittoria al Festival di Sanremo con “Chiamami ancora amore”, brano da molti ritenuto come uno dei “minori” del suo canzoniere, ma, in perfetta coerenza con la sua poetica e con la sua produzione, riesce ad avvicinare (forse in modo definitivo) il polo della vecchia canzone d’autore e quella sanremese/pop, consentendo un ripensamento stesso di queste categorie ormai datate.

Vecchioni con il Festival raggiunge quindi una grandissima fortuna popolare, apparendo tantissimo in televisione e sui giornali, poi partecipando anche come ospite a film e a serie tv.

Nel frattempo, giunto ai settant’anni di età, opta per una scelta minimalista, iniziando a circondarsi soltanto di (pochi) strumenti acustici, e virando verso uno stile interpretativo più recitato che cantato, in modo che valorizzi, in vere e proprie performance attoriali, il contenuto dei brani eseguiti sia live che in studio (sottolineato non solo dal testo verbale, ma anche dalle melodie): questa svolta rende Vecchioni ancora più “cantautore” di quanto non fosse in passato. Cinque anni dopo Io non appartengo più, in cui si sente quasi “sconfitto” sia come uomo di cultura che come uomo, realizza il più grande concept della sua carriera, L’infinito. Lo spunto iniziale è, ancora una volta, un classico della letteratura mondiale: il celebre idillio di Leopardi “L’infinito”. Il disco percorre poi una lunga sintesi di tutte le tematiche privilegiate dal cantautore, dalla centralità della parola e della poesia all’importanza della cultura classica, dai riferimenti culturali letterari e di attualità (vi troviamo menzionati Alex Zanardi, Papa Francesco, Mario Capanna e Italo Calvino, del quale parafrasa un importantissimo romanzo in “Una notte, un viaggiatore”) alla potenza della vita, che vince sempre su tutto e su tutti. Simbolo di questo lavoro è “Ti insegnerò a volare” (2020), singolo di lancio del disco giunto agli onori della cronaca perché ha rappresentato il ritorno al canto per Francesco Guccini, ritiratosi pochi anni prima dalle scene: nel brano, il personaggio di Zanardi è elevato a emblema vitale insieme all’Ulisse di omerica memoria, cantato in tutta la sua straripante forza.

Conclusioni
Vecchioni ha rappresentato da un lato il versante più colto della canzone d’autore italiana, infarcendo i suoi testi di riferimenti culturali vari, ma il suo tratto stilistico maggiore sta almeno: 1) nella rielaborazione all’interno della forma-canzone di archetipi letterari e di storie; 2) nell’uso della forma-canzone come veicolo di diffusione culturale; 3) nel vedere la canzone come una sorta di viatico personale della vita (ecco così spiegato tutto il diffuso e preciso autobiografismo).

Il Vecchioni-uomo e il Vecchioni-cantautore, pur differenti, si legano in modo imprescindibile in tutta la sua produzione artistica, che rappresenta una delle produzioni più coerenti, più ricche e più profonde di tutta la storia della canzone d’autore italiana.

Bibliografia
Capasso, Ernesto. Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli. Roma: Arcana, 2011.

Ciabattoni, Francesco. La citazione è sintomo d’amore. Cantautori italiani e memoria letteraria, Roma, Carocci, 2016.

Coveri, Lorenzo (a cura di). Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana: saggi critici e antologia di testi di cantautori italiani, Novara, Interlinea, 1996.

Jachia, Paolo. Roberto Vecchioni da San Siro all’Infinito. Cinquant’anni di album e canzoni (1968-2018), Milano, Ancora, 2019.

Talanca, Paolo. Il canone dei cantautori italiani. La letteratura della canzone d’autore e le scuole dell’età, Lanciano, Carabba, 2017.

Translated songs: