(Cassine, 1938 – Sanremo 1967)
Luigi Tenco (Di Marco Santoro, Università di Bologna) [1]
Nato in una famiglia della piccola borghesia rurale monferrina, che si occupava di commercio di vini. Orfano di un padre mai conosciuto, Luigi Tenco trascorse la sua prima infanzia con la madre, gli zii e i nonni tra il Monferrato e Varazze, in Liguria, dove risiedeva in collegio il fratello maggiore Valentino. Nel 1948 la famiglia si trasferì a Genova, dove lo zio Giovanni aprì una bottiglieria di vini tipici piemontesi. Nel negozio e nella piazzetta che era nei suoi pressi l’adolescente Luigi, tornato da scuola, trascorreva le giornate facendo le sue prime, formative esperienze amicali. La madre aveva ambizioni per Luigi, determinata a consentirgli quegli studi che né lei né il primogenito avevano potuto seguire. Fu proprio nel soppalco della vineria che Luigi iniziò a suonare il clarinetto con l’amico Bruno Lauzi, compagno di ginnasio e come lui destinato ad una significativa carriera nel mondo della canzone italiana. Al 1953 risale il primo complesso, la Jelly Roll Morton Boys Jazz Band, che il quindicenne Luigi fondò appunto con Lauzi e due altri amici. Come molti coetanei in quegli anni, Tenco imparava ad ascoltare ed amare il repertorio della musica jazz e popular americana ascoltando i dischi di musicisti come Jelly Roll Morton e Nat King Cole passando per Charlie Parker e Paul Desmond. Nel 1957 Tenco fu poi chiamato a partecipare come sassofonista ad un trio guidato da Marcello Minerbi al pianoforte, partecipando l’anno successivo alla fondazione del gruppo I Diavoli del Rock con l’amico Gino Paoli alla chitarra.
Nel 1956 per assecondare il desiderio della madre e del fratello, Tenco si iscrisse al corso di laurea in Ingegneria Elettrotecnica, lasciandolo tuttavia nel 1959 per passare al corso di laurea in Scienze Politiche. Gli studi universitari non lo trattennero però dalla carriera musicale, che nonostante qualche resistenza familiare proseguì, sempre nel circuito genovese e presto anche fuori. Il campo musicale nazionale si stava allargando, nuove proposte arrivavano dall’estero, dagli Stati Uniti ma anche dalla Francia, mentre il mercato dei dischi era in grande espansione offrendo nuove opportunità. Se la televisione faceva conoscere la chanson, il cinema e poi i juke-box erano i veicoli del rock’n’roll, che darà presto origine in Italia al fenomeno degli «urlatori» trovando in Adriano Celentano il suo principale interprete (e in Mina la sua controparte femminile). Mentre la madre e il fratello si trasferivano a vivere sulle colline di Recco, a circa 20 km da Genova sulla Riviera di Levante, Tenco decide così di trasferirsi a Milano, indiscussa capitale italiana dell’industria discografica di quegli anni, approfittando come molti altri genovesi – Paoli, Lauzi, Umberto Bindi e più tardi dello stesso Fabrizio De Andrè – dell’interesse che la neonata etichetta Dischi Ricordi, diretta da Nanni Ricordi, stava manifestando per il mercato della canzone italiana. Alla Ricordi, dove erano andati a lavorare come tecnici e arrangiatori i fratelli genovesi Gian Franco e Gian Piero Reverberi (del gruppo di amici quelli che avevano per primi e originariamente scelto di puntare professionalmente sulla musica), Tenco inizia nel 1959 la sua carriera discografica sia come autore sia – su sollecitazione della stessa casa discografica milanese – come interprete, dapprima cantando e suonando il sax in una band guidata da Gian Franco Reverberi (I Cavalieri, con Enzo Jannacci al pianoforte), quindi da solista, incidendo sotto vari pseudonimi alcuni ingenui motivi rock e canzoni in stile americano, sul modello dell’amato cantante afroamericano Nat King Cole.
È di Tenco, benché da lui non firmata non essendo ancora iscritto alla SIAE, anche la canzone che la Ricordi aveva commercializzato nel ’58 come «il primo rock italiano», “Ciao ti dirò”, cantata dal milanese Giorgio Gaber. Il nuovo genere proveniente dagli Stati Uniti viene però presto abbandonato da Tenco – o meglio, viene abbandonata quella forma di imitazione del rock’n’roll bianco americano che allora si eseguiva in Italia senza troppa perizia– che si dedica da quel momento in poi alla costruzione di un genere di canzone decisamente più integrato nella tradizione musicale italiana, sforzandosi peraltro di innovarne forme e i contenuti, sia con i testi che con la musica.
Nell’ottobre del 1960 pubblica (con lo pseudonimo di Dick Ventuno) quella che diventerà il suo primo successo discografico, la canzone “Quando”. In quella fase Tenco non si considera ancora un professionista: la sua professione, come scriveva nel luglio del ’60 alla direttrice di un noto rotocalco femminile, era infatti quella di studente universitario. L’uso di pseudonimi – ne cambierà tre nel giro di pochi mesi – è rivelatore del significato che Tenco ancora attribuiva alla sua partecipazione al mondo della canzone in quei primi tempi. Autore oltre che interprete, Luigi Tenco fu peraltro uno dei primi ad essere chiamati cantanti-autori, o, con formula destinata a sopravvivere, cantautori da un giornalismo musicale spesso improvvisato, generalmente affidato nei quotidiani a cronisti di costume, talvolta legati in modo clientelare ad un’industria discografica e televisiva in espansione, e che solo negli anni successivi avrebbe iniziato lentamente a costituirsi come critica professionale e autonoma in testate specializzate.
In un campo musicale allora in forte evoluzione, le canzoni di Tenco si segnalavano, almeno alla critica più preparata, per l’originalità della scrittura, un linguaggio quotidiano, parlato, asciutto, talvolta aspro, che riprendeva dai poeti e scrittori liguri e piemontesi di cui era attento lettore (Eugenio Montale e Cesare Pavese in testa). Musicalmente i suoi modelli, dopo la rapida incursione nel rock presto abbandonato, spaziavano dalla chanson francese alla ballad americana ma anche, e sempre più spesso col passare degli anni, al folk italiano, la canzone popolare, a cui l’ascoltatore era invitato ad accostare i suoi pezzi nelle note di copertina da lui stesso composte o almeno firmate (una pratica non certo comune allora, e già indicativa di una certa pretesa “autoriale”) per il suo primo album, pubblicato da Ricordi nel 1962, e contente alcune delle sue più fortunate e originali composizioni, come “Mi sono innamorato di te” e “Angela” (uscite anche, secondo l’uso del tempo, come singoli a 45 giri, e uniche a superare la censura della RAI).
“Le mie canzoni – si può leggere – vanno viste non tanto nel quadro della musica leggera o da ballo, quanto in quella della musica popolare. Il sentirne una di seguito all’altra, riunite in un long playing, spero contribuirà maggiormente a chiarire questo punto, cui evidentemente tengo molto. Infatti, io penso che al di là di un eccessivo conformismo nei testi poetici, al di là di fatture musicali più o meno di moda, la musica popolare resti pur sempre il mezzo più valido per esprimere reazioni e sentimenti in modo schietto, sincero e immediato”.
La sua carriera nel mondo artistico intanto prosegue e approda in quello stesso 1962 al cinema, esordendo come attore protagonista nel film La cuccagna di Luciano Salce, dove interpreta il personaggio (chiaramente autobiografico) di un giovane anticonformista, burbero ma affascinante, che si diletta tra l’altro nella composizione di canzoni. A seguito di contrasti nella dirigenza del gruppo Ricordi che portarono all’uscita di Nanni e del suo gruppo di collaboratori, nel 1964 Tenco passò alla SAAR del produttore discografico (svizzero ma milanese di adozione) Walter Gürtler, per la cui etichetta Jolly incise nel 1965 il suo secondo album, omonimo come il primo, comprendente due delle sue canzoni destinate a maggior successo, “Ho capito che ti amo”, e “Vedrai, vedrai”. La ricerca di un connubio della canzone (pur commerciale) con la musica popolare italiana – dove “popolare” era da intendersi non solo nel senso di folk ma anche di estraneo al circuito di massa – era ormai diventata la chiave stessa del suo più maturo progetto culturale, come chiarì con vigore nel corso di un dibattito a più voci sul futuro della cosiddetta canzone beat registrato nel gennaio del 1967 (in cui Tenco viene descritto curiosamente, ma anche significativamente, come «cantante folk»): “Secondo me la soluzione non è quella di guardare all’estero per imitare il genere degli altri. L’unica cosa da fare è sfruttare il patrimonio musicale nazionale […] il patrimonio folkloristico è così vario che ogni cantante e compositore potrebbero attingervi mantenendo la propria personalità. Se uno vuole fare la sua protesta, può protestare; se un altro vuol fare ballare la gente, può farla ballare; ce ne sarebbe per tutti.”
Il richiamo alla protesta aveva un significato autobiografico. Ancora prima che giungesse in Italia l’eco di Bob Dylan – di cui tra l’altro inciderà nel ’65, senza pubblicarla, la prima traduzione italiana (firmata da Mogol) di “Blowin’ in the wind”– Tenco coltivava infatti, forse anche per gli studi sociologici fatti, quella che sarebbe stata appunto chiamata la “canzone di protesta”, con testi che accusavano di volta in volta il potere, le diseguaglianze, l’emarginazione, il conformismo: una protesta che anche in Italia sarebbe divenuta presto di moda sull’onda della controcultura che anche qui stava prendendo piede, e dai cui gesti più esteriori Tenco non mancò peraltro di prendere le distanze, con toni anche aspri. Sono comunque soprattutto canzoni d’amore le sue più riuscite, anche se diverse da quelle trasmesse da una tradizione nazionale oramai industrializzata: canzoni malinconiche, spesso lentissime, i cui testi e la cui voce cantano di noia, di delusione, di quotidianità, lontano dalla retorica sentimentale della tradizionale canzone melodica italiana, ai tempi platealmente rappresentata da Claudio Villa. Anche musicalmente le sue composizioni spesso non sono facili, rompendo con i modelli standard della canzone italiana (ad esempio rinunciando al chorus) ed esigendo dall’ascoltatore medio non solo un’attenzione per lui insolita ma anche la disponibilità ad accettare soluzioni inusitate nel linguaggio e nella stessa interpretazione.
Nel 1966 Luigi Tenco aveva comunque già lasciato la Jolly (il cui contratto era coinciso del resto in parte con il periodo di servizio militare non più rinviabile), per passare alla RCA, multinazionale americana che aveva aperto da qualche anno una sede a Roma e che stava anch’essa puntando sul fenomeno emergente dei cantautori. La scelta era motivata dall’aspirazione, ormai maturata, di sfondare davvero, e di raggiungere un più ampio pubblico per le sue canzoni e soprattutto per il suo progetto culturale. Dopo aver pubblicato un nuovo album (dal più laconico titolo Tenco, e contenente quella che diventerà la sua canzone forse più rappresentativa e ‘di culto’, “Lontano lontano”) accetta quindi di partecipare al Festival di Sanremo previsto per la fine di gennaio 1967, in coppia con la cantante francese di origini italiane Dalida (con cui si vociferava di una relazione sentimentale), presentando una canzone da lui appositamente composta, “Ciao amore ciao”, il cui testo, più volte riscritto, raccontava nella sua versione finale le difficoltà emotive della migrazione dalla campagna alla città e la cui struttura musicale non mancava di una certa, spiazzante, originalità. La canzone non ottiene però il riscontro sperato, ed è anzi tra quelle eliminate nella prima serata, dopo una esecuzione da parte del suo autore nervosa e poco convinta.
La notte del 27 gennaio, col Festival ancora in corso, Luigi Tenco viene trovato morto, ucciso da un colpo di pistola alla testa, nella camera del suo albergo sanremese. Il biglietto trovato accanto al corpo lasciava pochi dubbi sulle ragioni della morte (che sarebbero state confermate a distanza di anni da un nuovo processo): suicidio come segno di protesta contro un pubblico un festival che non sapevano comprendere. Le reazioni della stampa, dell’opinione pubblica, del mondo della canzone e dello spettacolo furono le più disparate, da chi ne ricordava la personalità problematica e cupa a chi riconduceva il suo gesto apparentemente insensato alla perdita dei valori autentici da parte delle più giovani generazioni sino a chi riversava la colpa al meccanismo perverso della competizione discografica in un mondo regolato dalla fredda logica del profitto. Non mancarono però voci anche autorevoli di comprensione del senso profondo di un gesto solo in apparenza insulso (“Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio. La sua ribellione che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il muro dell’ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte”: così il premio Nobel Salvatore Quasimodo sul quotidiano romano Il Tempo).
La morte tragica e violenta di Luigi Tenco non ha contribuito solo alla sua improvvisa popolarità e al successo commerciale della canzone eliminata, e neppure soltanto alla produzione di quello che molti etichettano come “mito”: soprattutto, quella morte ha segnato in profondità la storia della canzone e più in generale della cultura italiana, creando le condizioni per quella che è stata a tutti gli effetti una rivoluzione culturale e simbolica, ovvero il riconoscimento della serietà, e del valore insieme estetico e morale della canzone, o meglio di quel genere di canzone da Tenco coltivato e immaginato, che, proprio a partire dallo “scandalo” di quella morte, sarebbe stata battezzata dal giornalista e critico musicale Enrico De Angelis, con formula destinata a successo, “canzone d’autore”. In onore di Luigi Tenco e per preservarne la memoria nel 1972 venne fondato, su impulso di Amilcare Rambaldi che ne sarebbe stato il presidente sino alla scomparsa, e con il contributo di numerosi artisti e critici, il Club Tenco, che dal 1974 organizza annualmente la “Rassegna della canzone d’autore”, un festival non competitivo di canzoni in cui la premiazione dei dischi usciti nel corso dell’anno considerati migliori dalla critica musicale si accompagna alle performance di selezionati rappresentanti del mondo di quella canzone.
NOTE:
[1] Una versione più lunga di questo articolo è stata pubblicata sul Dizionario Biografico Treccani.
BIBLIOGRAFIA:
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