(Roma, 1964 – )
Di Marianna Orsi, University of Hawaii
Nata a Roma nel 1964, Paola Turci è una delle voci più originali tra i cantautori e le cantautrici della così detta Scuola Romana. Turci inizia a suonare la chitarra all’età di undici anni e “Il cielo in una stanza”di Gino Paoli è la prima canzone che impara. Pino Daniele, Franco Battiato, Antonello Venditti, Patti Smith, Suzanne Vega, Joni Mitchell sono parte del suo apprendistato musicale. Come rivelerà anni dopo, a seguito del movimento #metoo, all’età di tredici anni Turci è vittima di una molestia sessuale, esperienza che ispira la canzone “Fiore di giardino” (Tra i fuochi in mezzo al cielo, 2005). Il suo debutto come interprete dal vivo, in vari locali romani, si colloca prima dei suoi vent’anni, mentre nel 1986 partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo, senza però essere ammessa alla finale.
Più fortunate le partecipazioni del 1987, 1988, 1989, nelle quali si aggiudica, per ben tre anni di fila, l’importante Premio della critica (creato pochi anni prima dai giornalisti della sala stampa per Mia Martini). Nel 1989 la Fonit Cetra le propone di interpretare “Almeno tu nell’universo”, scritta nel 1972 da Maurizio Fabrizio e Bruno Lauzi. Turci rifiuta, e, come dichiarerà in seguito, non si pentirà mai della scelta, perché l’assegnazione del pezzo a Mia Martini darà vita a un’interpretazione memorabile. A Sanremo di quell’anno Turci presenta invece “Bambini”, scritta da Roberto Righini e Alfredo Rizzo, il cui testo descrive le piccole vittime di violenza nelle zone più tormentate del mondo. Il pezzo la porterà alla vittoria nella categoria giovani e resta una delle sue canzoni più note e significative.
Nel 1993 Turci scrive la sua prima canzone, “Stato di calma apparente”, un testo introspettivo sulla sua personalità inquieta e sull’atto creativo. Fra il 1992 e 1993 studia recitazione con l’attrice Beatrice Bracco e viene selezionata per un provino con Ettore Scola. I progetti teatrali vengono tuttavia abbandonati nel 1993, a causa del grave incidente di cui Turci resta vittima. L’artista riporta lesioni gravi, che richiedono oltre cento punti di sutura sul viso e tredici interventi chirurgici a viso e occhio. Pur abbandonando i progetti teatrali e nonostante il viso parzialmente sfigurato, la cantautrice riprende però a esibirsi in concerti dal vivo, usando i lunghi capelli per coprire le cicatrici. La canzone “Volo cosí”(Volo cosí, 1996), presentata a Sanremo 1996, elabora questa esperienza traumatica, della quale Turci riuscirà a parlare apertamente solo molti anni dopo.
Nel 2000 comincia la collaborazione con Carmen Consoli. Insieme scrivono “Saluto l’inverno” e “Sabbia bagnata” (Mi basta il Paradiso, 2000), la prima eseguita a Sanremo 2000. Per l’album Giorni di rose, 2001, Turci interpreta canzoni scritte da altre cantautrici: oltre a Consoli, Nada Malanima, Marina Rei, Chiara Civello, Naif Hérin, Grazia Verasani e Ginevra Di Marco, e “Lunaspina”, scritta da Ivano Fossati per Fiorella Mannoia. Nei primi anni 2000 tenta di nuovo di partecipare al Festival di Sanremo ma viene più volte rifiutata.
È del 2014 l’autobiografia, “Mi amerò lo stesso” (il cui titolo richiama la canzone “Ti amerò lo stesso”, Paola Turci, 1989). Da essa viene tratto un monologo con il quale, nel 2016, Turci debutta a teatro. È la prima volta che la cantautrice parla pubblicamente dell’incidente del 1993. La copertina dell’album Io sono (2015), ritrae il viso dell’artista nella sua interezza, è la prima volta dal 1993. Nel 2017, dopo 16 anni dalla sua ultima partecipazione, Turci è di nuovo a Sanremo e non copre le cicatrici durante l’esibizione. Il pezzo autobiografico che presenta, “Fatti bella per te”, parla della sua nuova idea di bellezza, non più influenzata dagli stereotipi o dell’opinione altrui. Il pezzo le frutta il quinto posto e un grande successo. Si presenta di nuovo al Festival nel 2019 con L’ultimo ostacolo, canzone che elabora la dolorosa perdita del padre.
Le canzoni
Prima del 1993 Paola Turci interpreta solo covers (come “Mi chiamo Luka”, versione italiana di “Luka”, di Suzanne Vega) o canzoni scritte per lei da autori maschi (inclusi illustri cantautori come Riccardo Cocciante, Francesco De Gregori, Luca Barbarossa, Gaetano Curreri).
I primi album (Sarò bellissima, 1988; Paola Turci, 1989, Ritorno al presente, 1990; Candido, 1991) sono popolati da figure femminili tradizionali; donne in cerca dell’anima gemella, sempre pronte al perdono e totalmente dedite all’amato, che con la sua sola presenza migliora il loro mondo.
Ragazze, 1993, segna una svolta. L’album, infatti, annovera le prime canzoni scritte da Turci che descrivono figure femminili più attive. Ne “Il suono delle nuvole”, ad esempio, una donna lascia un uomo incapace di capirla. Lei è l’unica protagonista e soggetto agente, come dimostrato dai verbi in forma attiva (Io non ti amo più e non parlo più di te […]/chi nel tempo incontrerò io lo capirò […]/ prenderò la verità e ascolto”) che si differenziano dai testi precedenti in cui dominava il passivo. L’introspezione gioca un ruolo fondamentale (risento dentro me il rumore della mia felicità […]/ ascolto il suono delle nuvole che mi guardano, che mi parlano) e diventerà una costante nelle opere successive. Anche “La ragazza di Roma” ha per protagonista una donna, in un ruolo attivo e con un maggior grado di consapevolezza. È lei, infatti, a rubare il cuore all’uomo (e rubandoti il cuore ti dirà: tu mai lo capirai quanto amore non saprai).
“Stato di calma apparente” (Ragazze, 1993) descrive invece una donna indipendente, inquieta e capace di autoanalisi. Una donna che, nonostante un innamorato lontano (in questo mare degli occhi tuoi) si riappropria della dimensione individuale, della libertà di viaggiare (Sono sul mio treno) e dell’atto creativo. Il suo viaggio diventa riflessione sull’esistenza, sull’atto creativo (scrivo piano riflettendo) e sulla necessità di un cambiamento (sul bisogno di cambiare dentro me, fuori e dentro me).
“Volo così” (Volo così, 1996) è stata spesso definita la canzone della rinascita. Potrebbe tuttavia essere definita come una canzone di riappropriazione. Come in Stato di calma apparente, nonostante la presenza di un amore, probabilmente tormentato (questo amore in tutte le versioni), la figura femminile è protagonista, mentre quella maschile è solo una presenza silenziosa (adesso no ti prego non parlare). È la donna ad andarsene (e scusa se ti faccio male, se me ne vado via così), prendendosi il tempo per un viaggio, fatto di sogni e speranze. Un viaggio per ricominciare da capo senza paura degli errori (volo nel cuore di chi ha voglia di sbagliare) o dei pericoli (volo nel sole perché ho voglia di bruciare). Turci descrive una donna che si riprende la vita che, come in Stato di calma apparente, è fatta di viaggi, avventure e libertà, potentemente sintetizzate dalla metafora del volo. In Volo così Turci riscrive il mito di Icaro e un topos della canzone d’autore (per citarne solo alcuni Nel blu dipinto di blu, 1955; Ho imparato a volare di Eugenio Finardi, 1976; L’uomo volante di Marco Masini, 2004; Del tuo dolce volo di Franco Battiato, 2008), reinterpreta il mito dell’uomo volante dandogli una forma femminile seguendo l’esempio di altre cantautrici, come Gianna Nannini (Volo 5/4, 1982) o Alice (Volo di notte, 1986).
Se in Stato di calma apparente e Volo così la figura maschile rimaneva sullo sfondo, in Saluto l’inverno (Mi basta il Paradiso, 2000), è del tutto assente. Dopo la fine di un amore, la protagonista si risveglia, fisicamente e allegoricamente, con una nuova capacità di sentire (sentire il profumo intenso dell’estate) e un nuovo desiderio di conoscenza che, ancora una volta, prende la forma di un viaggio di scoperta (il motivo di un viaggio perenne). Ancora una volta il viaggio, reale o simbolico è espressione di indipendenza femminile e del bisogno di cambiamento, della necessità di superare stereotipi e aspettative (uno sguardo al di là del sistema solare). Turci e Consoli descrivono una donna capace non solo di superare la perdita ma di usarla come occasione di crescita personale e intellettuale. Una donna capace di imparare dall’esperienza, di vivere in perfetto equilibrio fra una nuova scoperta e una nuova perdita, amore e solitudine, paradiso e inferno.
Turci è da sempre impegnata politicamente e collabora con i progetti umanitari di Emergency, Amnesty International e la Fondazione Francesca Rava, specialmente ad Haiti. Fra i suoi testi più impegnati “Bambini” (1989) e “Rwanda” (2005) che si concentrano sul sud del mondo, “Armata fino ai denti” (2002) e “Un bel sorriso in faccia” (2002) che rappresentano una forte critica al Berlusconismo. “Un bel sorriso in faccia” (Questa parte di mondo, 2002) è un atto d’accusa contro Berlusconi, abile acrobata, illusionista formidabile, maestro nell’arte della manipolazione. In “Armata fino ai denti” (Questa parte di mondo, 2002), invece, Turci elenca le ragioni che hanno portato al berlusconismo, la caduta di un sistema politico e sociale, la perdita di certezze e identità (il lento passare di un secolo, prospettive incerte, il bisogno di identità, davanti a me un triste scenario di guerra) e contrappone le ragioni dell’arte a quelle della politica e dell’economia. Da un alto c’è il presente, dominato dall’interesse politico ed economico, dall’atro il passato che, al contrario, conferiva all’arte un posto centrale nell’identità italiana (Qualcuno diceva che l’arte ha la stessa importanza storica della politica e dell’economia) e per il quale si dichiara pronta a combattere. La figura femminile armata, potrebbe essere interpretata come una personificazione dell’Arte o dell’Italia, come accade, ad esempio, in “Quarant’anni” dei Modena City Ramblers (Riportando tutto a casa, 1994; non a caso Massimo Giuntini, ex componente dei MCR, ha collaborato con Turci in Questa parte di mondo) o in “Povera patria” di Franco Battiato (Come un cammello in una grondaia, 1991) reinterpretata da Turci nel 2004.
Attraversami il cuore
Attraversami il cuore, può sembrare, a prima vista, una canzone d’amore completamente convenzionale. Quello della freccia di Cupido che attraversa il cuore dell’innamorato è, infatti, il più comune dei topoi poetici. La solitudine, come conseguenza dell’amore (felice o infelice), pure è un tratto assolutamente convenzionale. Il testo, tuttavia, non descrive un amore felice, né un amore infelice, almeno nel senso tradizionale, si concentra piuttosto sull’elemento dell’incertezza. L’amore può arrivare troppo presto, troppo tardi, o non arrivare mai, in modo completamente imprevedibile e incontrollabile (l’amore si può mancare per un attimo; perché arriva troppo presto o troppo tardi). Quando si parla d’amore nulla è semplice (ritrovare i momenti perduti non è facile; per uno che ci riesce, mille ci provano all’infinito e troppi sono bagnati di lacrime), e così come è impossibile dire dove finisce il cielo, non è possibile prevedere dove andrà e quanto durerà l’amore (io non so fino a dove il cielo allunga le braccia; Io non so fino a dove ci porteranno i nostri sogni). L’unica certezza è che il sentimento amoroso ci tiene in vita: finché lo cerchiamo nuove stagioni continueranno a fiorire. La narrazione non ha un andamento lineare (una storia con uno svolgimento e una conclusione), ma circolare (rinkomposition). Il testo, infatti, si apre e si chiude con lo stesso, irrisolto, senso di incertezza, espresso dal verso L’amore si può mancare per un attimo. Il riferimento alla solitudine, seguito dall’immagine del cuore trapassato da un raggio di luce (attraversami il cuore di luce), invece, non possono che rimandare alla condizione umana descritta da Salvatore Quasimodo:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Fatti bella per te
Nel 2017, a 53 anni, Paola Turci torna a Sanremo dopo un’assenza di16 anni. L’artista dichiara “Torno in gara al Festival di Sanremo perché mi sembra la prima volta, ma soprattutto perché ho un pezzo vero, forte, che racconta la mia storia di oggi, il tema è l’accettazione di sé stessi, lo scegliere di piacersi, di volersi bene” (https://www.rockol.it/news-669226/sanremo-2017-paola-turci-canta-fatti-bella-te-videointervista?refresh_ce ). Il testo ridefinisce la bellezza femminile, non come condizione immutabile, ma come processo. Una donna, infatti, non è bella, non appare bella, ma si fa bella. Non per soddisfare standard o aspettative sociali, né per farsi accettare, ma solo per se stessa e a modo suo (fatti bella per te). La voce narrante si rivolge a una figura femminile e la definisce più bella rispetto al passato. Un passato in cui, probabilmente, troppo influenzato dai canoni estetici e dalle opinioni altrui. La voce narrante definisce l’interlocutrice più bella nonostante, o forse grazie alla sua presa di distanze da ogni stereotipo estetico, al ruolo del trucco e dell’abbigliamento (non ti trucchi… ti vesti in fretta… e non ti importa niente, niente!). La donna ha abbandonato l’idea di bellezza come gioventù e sorrisi forzati, infatti non è più giovane (le mani stanche… Passano inverni…), ha fatto esperienze dolorose (qualcosa dentro te si è rotto), è inquieta (le ginocchia sotto il mento… E dentro hai una confusione, hai messo tutto in discussione), ma sorride perché tutto questo non la condiziona più (sorridi e non ti importa niente, niente!) e questa consapevolezza rende bella. Turci definisce la bellezza come capacità di essere veramente e pienamente se stessa (più bella quando sei davvero tu) e di amarsi di più (fatti del bene), di diventare bella per se stessa (fatti bella per te) in un modo più naturale (sei più bella quando non ci pensi più). In questo senso la bellezza non è più una condizione ma un processo o meglio una conquista. In una recente intervista, alla domanda “sei capace di essere bella solo per te?”, Turci ha risposto: “Adesso sì, ma è una conquista recente, prima continuavo a chiedermi come mi vedessero gli altri. Mi sentivo sempre esposta a un giudizio. Come se tutto ruotasse attorno alla cicatrice sul mio volto […] Questa cicatrice mi ha cambiato il volto […]. Per me è bellissimo quando mi dimentico da che parte stia: a destra o a sinistra? Boh. Quando succede, mi sento leggera, credo di aver finito di stare male, penso di non doverla nominare più […]. La mia cicatrice vera è […] la paura di essere brutta, o peggio, di essere una qualunque. Le cicatrici delle donne sono anche le rughe: che ci affanniamo a nascondere, cancellare […]. [Ma la vera bellezza è] saper abbracciare, saper essere felice, sapere come esprimersi: con la musica o anche solo con un sorriso. Io mi sento bella quando canto” (https://www.grazia.it/stile-di-vita/interviste/paola-turci-intervista ).