Di Antonio Sotgiu (CERLIM – Université Sorbonne Nouvelle)
Paolo Conte è tra i musicisti italiani di maggior successo internazionale, soprattutto in Francia, una sorta di terra d’adozione, e negli Stati Uniti, dove nel 2006, la celebre “Via con me” viene utilizzata in uno spot della Coca Cola. Se non si può parlare di primato commerciale – artisti pop come Andrea Bocelli, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti hanno venduto nel mondo molti più dischi – è difficile negargli un primato artistico-estetico, decretato dal pubblico, dalla critica musicale, dai cineasti che hanno spesso impiegato i suoi brani per le loro pellicole, dagli studi specialistici sulle sue composizioni, dai riconoscimenti accademici (si pensi alle due lauree honoris causa in Lettere Moderne e in Musicologia, la prima nel 2003 presso l’Università di Macerata, la seconda nel 2017, conferitagli dall’Università di Pavia e a quella in pittura, conseguita presso l’Università di Catanzaro nel 2007), sino al recentissimo concerto straordinario che Conte ha tenuto alla Scala di Milano (19 febbraio 2023). La musica di Paolo Conte è considerata colta, raffinata, ambiziosa, non del tutto estranea alla tradizione del cantautorato francese e italiano, ma al tempo stesso degna di essere analizzata e apprezzata con gli stessi strumenti con cui si apprezzano e si analizzano la musica classica e il jazz.
Il suo ingresso nel mercato musicale avviene nei panni del compositore per interpreti di musica leggera, per i quali propone uno stile compositivo personale ma radicato all’interno di una nuova canzone italiana che oscilla tra le sonorità della nuova musica beat e le melodie più tipicamente italiane e popolari. “Azzurro,” una delle canzoni italiane più note all’estero–di cui si conoscono tantissime versioni in svariate lingue, firmata Conte-Pallavicini, malgrado Conte ne abbia rivendicato interamente la paternità —fa parte dell’immaginario collettivo di almeno tre generazioni di italiani che, nella versione portata al successo da un già famoso Adriano Celentano, l’hanno cantata nei bar, nelle corriere scolastiche in gita, nelle automobili che nei primissimi anni Settanta invadevano le strade italiane dirette verso le località balneari, cogliendo forse solo in parte, tutte le complesse sfumature musicali ed esistenziali che la contraddistinguono. Uscita nel 1969, quando Conte aveva già superato la trentina, “Azzurro” costituisce una tappa importante ma non ancora decisiva per la sua carriera artistica. Bambino nell’immediato dopoguerra, Paolo, assieme al più giovane fratello Giorgio, cresce in un ambiente musicale inabituale per un coetaneo nato nella provincia italiana di quegli anni. I genitori sono infatti grandi appassionati di jazz, e possono ormai far suonare a tutto volume i dischi acquistati clandestinamente durante gli anni dell’embargo culturale fascista. Rapito dai suoni del clarinetto di Johnny Dodds e da quel vorticoso caleidoscopio di ritmi e strumenti che caratterizza il jazz della prima metà del Novecento. In quegli anni Paolo riceve un vero e proprio imprinting non solo musicale. I dischi del padre gli permetteranno di accedere a un universo immaginario, poetico e figurativo che nutrirà costantemente le sue canzoni. Il suo interesse quasi esclusivo per la musica jazz lo spinge a studiare il piano ma anche strumenti meno convenzionali come il trombone a coulisse e soprattutto il vibrafono e il kazoo, suonati in svariate orchestrine dai nomi rigorosamente americani (Original Barrelhouse Jazz Band, I Cinque Tuxedo, i Taxi For Five, la Lazy River Band Society) negli anni Cinquanta. È a partire dai primi anni Sessanta che Paolo, portati a termine gli studi di giurisprudenza, intraprende, inizialmente assieme al fratello una carriera parallela di autore di canzoni, che lo porterà a scrivere per interpreti e cantautori italiani e stranieri di successo come Caterina Caselli (“Insieme a te non ci sto più”), Gigliola Cinquetti, Rita Pavone, Bruno Lauzi (“Onda su onda,” “Genova per noi”), Enzo Jannacci (“Messico e Nuvole”), Shirley Bassey, Dalida e Johnny Hallyday, per citarne solo alcuni. “Azzurro” e gli altri successi spingono la sua futura produttrice Lilli Greco a proporre a Conte la registrazione di un album solista, ma Conte declina l’invito, non sentendosi ancora pronto per essere interprete delle proprie canzoni. Negli anni seguenti si allontana addirittura dalla musica, lavorando nello studio notarile del padre. Solo nel 1974, sollecitato nuovamente da Lilli Greco, Conte accetta di incidere un 33 giri, intitolato semplicemente Paolo Conte, che continene temi, giri armonici, e immaginari poetici che innerveranno il successivo repertorio contiano, come la malinconica “Una giornata al mare,” scritta assieme a Giorgio, la più movimentata e divertita “Onda su onda,” e il primo episodio di quella che verrà definita la saga del Mocambo, “Sono qui con te sempre più solo.” A un anno di distanza esce un secondo LP, sempre dal titolo omonimo, dove sono presenti altri brani celebri come “La ricostruzione del Mocambo,” secondo episodio della saga e soprattutto “Genova per noi.” Come nel caso del primo disco, si tratta di una registrazione in presa diretta, di qualità fonica non eccelsa, con arrangiamenti scarni, realizzati per lo più con un pianoforte suonato “di pancia”, come Conte definisce fra l’altro la tecnica pianistica da varietà del padre Luigi, detto Gigi. Pochi altri strumenti accompagnano una voce dalla forte espressività teatrale, talvolta volutamente enfatica, quasi sguaiata e fuori dal registro vocale del cantante, come nella celebre “La Topolino amaranto,” scritta anch’essa assieme al fratello Giorgio, dove Paolo oscilla in modo apparentemente incontrollato da un’ottava all’altra, quasi a mimare le performances automobilistiche un po’ goffe e spericolate dell’eccitato protagonista del brano. Le sonorità jazz sono presenti e fuse nelle ritmiche della pompe del pianoforte, che richiama sia uno stile da varietà, sia il ritmo di una marcetta da festa paesana le cui atmosfere di provincia sono rinforzate dalla fisarmonica, uno strumento che avrà un ruolo importante nel ricreare il clima nostalgico e pensoso delle nebbie padane (“La fisarmonica di Stradella”), mentre la pompe manouche della chitarra dà un marcato sapore swing a “La
ricostruzione del Mocambo.” Bisognerà attendere quattro anni, ovvero il 1979, per l’uscita del terzo album in studio, Gelato al limon e per l’esordio concertistico di Paolo Conte solista, con il primo di una lunga e fortunatissima serie di tournées che gli permetterà di sperimentare sempre nuovi arrangiamenti capaci di estrarre nuove sfumature musicali e poetiche dai brani precedenti grazie a un complesso strumentale sempre più ampio, variegato e di altissimo livello. Le tecniche di registrazione di questo album sono più sofisticate e performanti. Pur mantenendo in larga parte le ritmiche da marcetta (“Bartali” ma anche “Sudamerica”) e la predominanza dell’accompagnamento pianistico su una voce meno squillante ma sempre estremamente espressiva, si notano aperture più marcate verso sonorità esotiche, in “Blue Tangos” (ma era già presente la canzone “Tango” nell’album precedente) e in “La donna d’inverno,” che lascia largo spazio a una virtuosa chitarra tanghera che ricorda Carlos Gardel.
Gli anni Ottanta costituiscono probabilmente la decade più prolifica dell’artista piemontese con l’uscita di ben sei album (quattro in studio due dal vivo). Si tratta del decennio che lo consacra definitivamente sulla scena internazionale e in primis in Francia dove esordirà trionfalmente all’Olympia di Parigi nel 1987. In Paris Milonga, uno dei dischi più amati di Conte, si coniugano felicemente sperimentazione, complessità compositiva e orecchiabilità, con delle sonorità vocali più intimiste e dal registro baritonale che il tempo e il tabacco renderanno sempre più profondo e pastoso. È l’album della maturità, con capolavori del calibro di “Via con me,” “Madeleine,” “Boogie,” “Alle prese con una verde Milonga.” Nell’aprile del 1982 esce Appunti di viaggio, sempre più curato nel sound e negli arrangiamenti, con le chitarre di Jimmy Villotti, e con una sezione fiati sempre più ampia, valorizzata soprattutto nelle versioni live degli anni successivi, dove alcune delle canzoni più rappresentative dell’album, come “Hemingway,” “Lo zio,” “Diavolo rosso,” “Dancing” e “Nord,” sono riarrangiate grazie alla collaborazione con lo straordinario sassofonista e compositore Antonio Marangolo, che sarà anche direttore artistico dell’album successivo del 1984, ancora una volta intitolato Paolo Conte. In questo disco compare il terzo e musicalmente più compiuto episodio (anche a detta dell’autore) della saga del Mocambo, “Gli impermeabili”, ma anche altri brani notevoli come “Sparring Partner,” “Come di,” e “Come mi vuoi?”. Marangolo seguirà Conte in tour con i suoi memorabili assoli di sax, le cui registrazioni delle date italiane di Lodi e Perugia usciranno sul mercato l’anno seguente con il semplice titolo di Concerti, dove troviamo anche “Azzurro” interpretata dal suo compositore. A soli due anni di distanza, esce il doppio disco Aguaplano, a cui farà seguito una tournée internazionale con un organico quasi da big band (sei elementi per la sezione fiati, chitarra, contrabbasso, violoncello, tastiere, batteria e pianoforte). La data registrata allo Spectrum di Montréal darà vita al sesto disco del decennio, Paolo Conte Live, uscito nel 1988 e contenente la versione contiana di “Messico e nuvole.”
Negli anni Novanta Paolo Conte diventa un artista che non ha più bisogno di presentazioni. Sempre più richiesto e impegnato in tournées in giro per il mondo, non si sottrae al suo pubblico e mantiene ancora intatta la sua vena creativa, pubblicando tre album in studio e due dal vivo. Del 1990 è Parole d’amore scritte a macchina, con la copertina disegnata da Hugo Pratt, che vede Conte nella veste ufficiale di arrangiatore e orchestratore. Si tratta di un album privo di batteria e percussioni, la cui ritmica si regge per lo più sulle chitarre e sul contrabbasso di Jino Touché, elemento importante del nuovo corso contiano. Ad eccezione della rapida e brillante “Happy feet (musica per i vostri piedi madame)” che assieme a “Mister Jive” è arricchita dalla presenza di un coro femminile, o ancora “Il Maestro,” dove però il coro si fa lirico, in segno di omaggio ai grandi direttori d’orchestra del passato e del presente, il tono generale è cupo e malinconico, gli arrangiamenti asciutti e il sound sfumato, quasi a ricercare le atmosfere dei primi album. L’io lirico si ripiega su un passato nostalgico dalle tinte blu, come in “Un vecchio errore,” nella dantesca “Eden,” nella title-track o ancora in “Ho ballato di tutto,” dove un vecchio ballerino si inebria nel ricordo di una “blue fame” e di un “blue love”. Nel 1993 esce Tournée, disco dal vivo registrato a partire da vari concerti europei, mentre nel 1995 esce 900, nono album in studio, consacrato a un secolo che Conte privilegia da un punto di vista estetico-musicale soprattutto nella sua prima metà, quella del jazz classico (rappresentato dal fantasma del batterista Chick Webb in “Gong-oh”), dei movimenti d’avanguardia, del vaudeville e del varietà.
Il decimo album in studio, Una faccia in prestito, esce nel 1995 e consta di ben 17 brani. Non è considerato uno dei migliori dischi di Conte da parte della critica ma contiene alcune canzoni di pregevole fattura e apprezzate dal pubblico, come “Elisir,” “Un fachiro al cinema” e “Architetture lontane.” Il duemila vede l’uscita di un grande e originale progetto artistico, che unisce la musica, la narrazione e le arti figurative. Stiamo parlando di Razmataz, opera-video, sorta di musical-vaudeville che alterna trenta brani in inglese e francese (con la sola “Pasta diva” in italiano) accompagnate da quasi 2000 disegni realizzati dallo stesso Conte con tecniche diverse, che guidano l’ascoltatore in una oscura storia ambientata nella Parigi degli anni Venti, luogo d’incontro musicale e culturale tra vecchio e nuovo continente. Una storia che prende le mosse dalla scomparsa di una ballerina giunta nella capitale francese per danzare con un gruppo di artisti afro-americani. Troviamo qui un Conte dalla voce più espressiva e teatrale che mai, che aspira a mettere in scena le voci dei neri americani che arrivano a Parigi e che proiettano le loro nostalgie e i loro sogni edenici su una patria che non sono sugli States, ma piuttosto i paesi africani dai quali ebbero inizio le tratte degli schiavi. È il caso del Mozambico evocato in “It’s A Green Dream.” Molti brani sono cantati da bellissime voci femminili, in versione solista (“La reine noire”), in duo con Paolo Conte (“La petite tendresse”) o in coro.
Dopo il grande sforzo compositivo di Razzmataz, bisogna attendere quattro anni per un nuovo album di inediti (nel 2003 era uscito Reveries, che proponeva vecchi brani rivisitati). Nel 2004 esce Elegia, album meno sperimentale ma di elevata qualità compositiva, che conosce un ottimo successo di critica e di pubblico (arriverà al primo posto in classifica in Italia). Un delicato tono elegiaco è presente nella title-track, in “Chissà,” in “Bamboolah,” e nel capolavoro “Molto lontano,” ma è in parte stemperata nel più movimentato quarto e per il momento ultimo episodio della saga del Mocambo, “La nostalgia del Mocambo,” dove il solito contesto disilluso e sconfitto del protagonista viene ravvivato dai suoi ricordi che viaggiano al ritmo di rumba. Da ricordare anche la giocosa
e autoironica “La vecchia giacca nuova.”
Del 2008 è Psiche, album meno felice rispetto al precedente da un punto di vista compositivo ma interessante per l’uso più frequente e originale del synth, che crea atmosfere soffuse di grande impatto, come nel caso di “Coup de Théâtre,” dove duetta in francese con la deliziosa Emma Shapplin, o l’uso della drum machine in “Omicron.” L’elettronica è presente anche nel successivo Nelson del 2010, come nel caso dell’interessante “C’est beau,” dove Conte sembra quasi recuperare certe atmosfere alla Serge Gainsbourg, come anche in “Massaggiatrice” e “Los amantes del Mambo”, tutta in spagnolo. Ripresa leggera e divertita di vecchie melodie contiane è la canzone scelta come singolo che anticipa l’uscita dell’album, “L’orchestrina.” Il quindicesimo album, Snob, esce nel 2014 ed è attualmente l’ultimo album di Conte in veste di chansonnier, dal momento che la sua ultima fatica, Amazing game, del 2016, è un disco interamente strumentale. Come per i due dischi precedenti, la critica tende a sottolineare la perdita di verve creativa, e la ripresa stanca di ritmi e cadenze passate. A dispetto di tale giudizio, non mancano alcuni brani felici e di pregevole fattura, come “Tropical,” non priva di sfumature autoironiche, o “Tutti a casa,” molto vicina ai brani del primissimo Conte senza costituirne tuttavia una semplice riproposizione. La vicinanza cronologica e la rigidità di certa critica nella fissazione di un canone contiano che arriva grosso modo fino alla fine del XX secolo, non permettono di apprezzare appieno le sue ultime fatiche discografiche. Ma non è affatto da escludere che possano essere rivalutate e riscoperte negli anni a venire.
L’uomo del Mocambo
Abbiamo più volte fatto cenno alla saga del Mocambo, ma il termine “saga” non è forse il più appropriato per caratterizzare i quattro brani di Paolo Conte che evocano le vicissitudini dell’omonimo bar. Tuttavia, in varie interviste, lo stesso Conte parla di un “uomo del Mocambo”, per caratterizzare non solo la voce che si esprime in “Sono qui con te sempre più solo,” “La ricostruzione del Mocambo,” “Gli impermeabili” e “La nostalgia del Mocambo,” ma più in generale, e in varie declinazioni, quell’io maschile, non più giovanissimo e problematico che prende la parola o che viene descritto o evocato in numerosissime canzoni del cantautore astigiano. Non si tratta di una vera e propria saga ma di un mondo fittizio piuttosto scarno attraverso il quale accediamo grazie a musica e parole per lo più allusive, ellittiche. Si tratta di una voce che ha un ethos e un universo di immagini, forme, pulsioni, aspettative, credenze che aprono verso altri mondi di evasione, evocati non tanto a partire dall’enciclopedia dell’autore quanto dal vocabolario che l’autore attribuisce al personaggio. È importante infatti chiarire che l’uomo del Mocambo non è un alter ego di Paolo Conte, ma un tipo umano al quale Conte presta la sua voce teatrale, le sue armonie, i suoi ritmi per rappresentarne l’instabilità esistenziale e storica, una sorta di bipolarità che lo pone perennemente in bilico tra amara accettazione della realtà, slancio velleitario e necessità di evasione. Mocambo è un nome esotico e altisonante e, come ha più volte spiegato Conte, vuole rappresentare un piccolo bar di provincia, che fatica a restare aperto negli anni difficili del secondo dopoguerra. Il protagonista è un uomo ignorante ma piuttosto bello, elegante, attratto da una certa mondanità galante, ma che non riesce a gestire il locale (che chiude, riapre, richiude). Le cose non vanno meglio sul fronte delle relazioni sentimentali, marcate dall’incomunicabilità, sottolineata dalle origini straniere di almeno due delle partner evocate nel corso dei vari brani, un’austriaca e una probabilmente francese Janine. L’uomo del Mocambo è una sorta di ex-seduttore di provincia ripiegato su sé stesso che trova una sorta di comprensione e partecipazione empatica nel curatore fallimentare, mentre la propria partner lo guarda “con fredda ironia”, è sempre “gelosa”, “lontana” e “amara” nel silenzioso “tinello marron” nel quale i due vivono come confinati. L’uomo del Mocambo è però anche capace di momenti di grande entusiasmo e trasporto. Sostenuta da una delle melodie più riuscite di tutto il repertorio contiano è “Gli impermeabili.” Potenziata dal synth, che sottolinea lo slancio vitale del protagonista, essa viene anche eseguita dal kazoo, uno strumento dal sapore al tempo stesso esotico, date le origini afro-americane, e comico-popolare, che non si “suona” ma si “canta” o si “parla” e che distorce la voce in modo non troppo dissimile dalla “pivetta” che il “guarattellaro” napoletano utilizza per riprodurre la non-voce di Pulcinella. L’uomo del Mocambo è un personaggio comico e talvolta umoristico e il kazoo rappresenta quella lingua ignota che non esprime un significato chiaramente articolato e stabile, ma piuttosto una buffa, energica ma anche lancinante pulsione vitale. L’uomo del Mocambo cade in piedi, e in quegli anni difficili del dopoguerra ha conosciuto momenti di grande entusiasmo, esaltazione, frenesia creativa. Il protagonista dalla “Topolino amaranto” può essere visto come una primaria incarnazione dell’uomo del Mocambo. In quell’estate del 46 dove “sei case su dieci sono andate giù” per un temporale che rivela la fragilità degli edifici bombardati durante la guerra, il protagonista invita una generica “bionda” a distrarsi rivolgendo lo sguardo verso il cielo grazie alla sua decappottabile. Siamo alle prese con una sorta di viveur che può però essere anche declinato in una versione più colta e brillante come ne Lo zio, dove peraltro troviamo il più bell’assolo di kazoo, diventato negli anni uno dei pezzi forti delle sue performances concertistiche. In questo caso, si tratta di un personaggio ispirato da uno zio reale del cantautore, lo zio Gino, dongiovanni di provincia dall’inesauribile gusto per le novità venute da lontano, come il cinema e il jazz, passione che condividerà con il nipote accompagnandolo ai suoi primi concerti. Dai gusti più popolari rispetto al raffinato zio Gino, l’uomo del Mocambo segue le passioni sportive degli italiani di quell’epoca. Il suo amore per il ciclismo si esprime in tutta la sua sguaiata eccitazione in “Bartali”, nella quale si permette di apostrofare in malo modo una non ben identificata fidanzata che avrebbe preferito andare al cinema, pur di non perdersi il passaggio del suo idolo. Nelle sue vesti più popolari (“Bartali”) ma anche in quelle più raffinate (“La donna d’inverno”), e nelle canzoni della saga, l’uomo del Mocambo mostra tratti di schietta misoginia – che non va ovviamente attribuita all’autore -, risultato al tempo stesso di tabù ancestrali, convenzioni piccolo borghesi e nuove spinte emancipatorie che aumentavano ulteriormente la contraddizione tra i modelli di seduzione in voga – l’uomo del Mocambo secondo Conte si ispirerebbe a Humphrey Bogart – e la reale vita di provincia. La voce che si esprime in molte canzoni di Paolo Conte è quella di un uomo spesso in difficoltà, in cerca di una seconda chances, che rimembra un triste passato fatto di errori ed egoismi giovanili (“Un vecchio errore,” “Chiamami adesso”) o lamenta la solitudine del dandy (“Nessuno mi ama”). Oppure si rivolge a un’amante nuova, che invita a ripararsi nel calore di una stanza d’albergo (“Parigi,” “Come mi vuoi”) masticando goffamente frasi fatte e nonsense in un inglese approssimativo ma ritmicamente efficacissimo (“Via con me”). Talvolta si tratta di personaggi perdenti sebbene non del tutto rassegnati (“Colleghi trascurati,” “Lupi spelacchiati”), riacciuffati all’ultimo da donne che ne accettano generosamente la goffaggine e il carattere ruvido.
Le scene di seduzione.
Molte canzoni di Conte sono costruite su vere e proprie scene di seduzione, nelle quali il protagonista si rivolge direttamente o indirettamente alla donna concupita oppure evocate da un osservatore esterno, un ipotetico avventore di un club di provincia (“Boogie”) o un non ben identificato voyeur, testimone di una scena di seduzione in “Hesitation” in un clima musicale soffuso e minimale, arricchito dal violoncello. La prima, un classico contiano, mette al centro una coppia di ballerini particolarmente affiatata in un club che potrebbe essere un locale di provincia, ma che è anch’esso trasfigurato dalle similitudini esotiche di un dancing nero americano, come ha suggerito successivamente Conte, dove l’autore compiaciuto si diverte a evocare l’atmosfera del luogo, i colori, gli odori i rumori e a rappresentare bozzettisticamente i gesti, le intenzioni, le espressioni di tutti gli avventori. Il taglio descrittivo è cinematografico, come se ci fosse una camera che si sposta freneticamente nelle varie zone del locale. Il corpo della ballerina “mandava vampate africane”, l’orchestra “si dondolava come un palmizio/davanti a un mare venerato”. Assistiamo al cambio di turno di due cassiere, entrambe precisamente connotate, la prima “dal volto pechinese” “fumava al mentolo” mentre la seconda “aveva gli occhi da lupa/e masticava caramelle alascane). Dopo l’acme raggiunto dai ballerini con un’orchestra che segue le loro sfrenate proiezioni, resta lo spazio per un accenno fugace a un “quinto personaggio”, un avventore, un possibile “uomo del Mocambo” nelle vesti del dragueur che fa maldestramente la sua mossa nei confronti di una donna per poi ritirarsi nell’ombra, e celebrato da Conte in chiusura con la celebre sentenza: “Era un mondo adulto/si sbagliava da professionisti”. Dalle tonalità più malinconiche, vanno menzionate l’ormai classica “Parigi,” e la struggente “Come mi vuoi?” dove il cambio di ritmo nelle varie sezioni del brano segnalano lo svolgersi del dialogo seduttivo. La più lenta e soffusa fase di incerta interrogazione sul dà farsi, la più marcata, rapida e volitiva espressione del desiderio, con la celebre frase “dammi un sandwich e un po’ di indecenza/e una musica turca anche lei” che però si stempera rapidamente e ritorna alla fase interrogativa iniziale, ma con accresciuta complicità, segnalata dall’intonazione della voce, lasciando poi al sax tenore il compito di esprimere le emozioni più erotiche e viscerali. Un discorso un po’ a parte va fatto per “Gelato al limon,” canzone dalle liriche inusitatamente ampie e complesse. Sebbene non possa dirsi propriamente autobiografica, si tratta di una canzone scritta a ridosso del fidanzamento e del matrimonio dell’autore. Una coppia che si appresta a condividere la vita si ritrova immersa in una torrida estate cittadina, che cerca di far trascorrere con una passeggiata dove la donna porta ancora con sé la sua metaforica “valigia di perplessità”. Le parole del protagonista cercano di rassicurarla elencando delle qualità che lui le metterà a disposizione, prendendole a prestito da inattesi personaggi e luoghi della quotidianità cittadina, come gli elettricisti e i bagni diurni. Rimangono presenti immagini della seduzione cupa e problematica degli uomini contiani, come gli “alberghi tristi” che troviamo anche in “Parigi,” ma il tono, seppure inserito in un contesto di velata malinconia, non è quello rassegnato dell’uomo del Mocambo, bensì quello di un uomo più sicuro e risolto, che segnala bonariamente ma fermamente la serietà del suo impegno. (“E una stretta forte della mia mano/Per te donna che non mi scappi più…)
Musica e parole. Le parole della musica
Paolo Conte ha spiegato in svariate occasioni come il suo processo compositivo parta sempre dalla musica, dalla creazione di un tema o di una commistione di temi e ritmi sul quale poi vengono aggiunte le parole. Il primato della musica implica una maggiore libertà e varietà di cadenze, ritmi, accenti, che rendono difficoltosa la stesura del testo, soprattutto a livello sintattico e prosodico. Da questo punto di vista, l’ethos dell’uomo del Mocambo e dei suoi consimili si confà perfettamente alle esigenze musicali di Conte. La sua cultura limitata, il suo immaginario esotico tendenzialmente superficiale, lontanissimo da ogni forma di erudizione, il suo vivere di guizzi, sguardi fugaci, richieste brusche e maldestre, come anche la sua conoscenza approssimativa delle lingue straniere hanno permesso a Conte di sviluppare una poetica giocata sull’allusività, l’ellissi verbale, la reticenza, il plurilinguismo, la ricchezza di deittici, l’uso della lista, la ripetizione, la sintassi paratattica e franta, la rarità lessicale. Un complesso di materiali verbali capace di proiettare l’ascoltatore in luoghi e tempi lontani. Oltre al valore altamente evocativo e poetico che ne deriva, tali scelte stilistiche si amalgamano alla perfezione con la varietà ritmica e armonica delle sue canzoni, le cui variazioni e commistioni musicali diventano motivi che catturano le alterazioni delle sensazioni dei personaggi. I versi contiani sembrano per certi aspetti vicini a quelli baudeleriani, sebbene meno angosciati e perturbanti. Si prenda ad esempio la celebre “À une passante,” nella quale l’io poetico proietta un futuro ipotetico, non situato e non situabile (“Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!”) con la giovane donna vestita a lutto, agile, nobile e dalle gambe statutarie, fugacemente incontrata nella strada urlante. La dialettica “qui/altrove” caratterizza i brani contiani sia a livello tematico sia a livello ritmico. Si pensi ai nomi esotici, spesso tronchi e consonantici svolgono una funzione evocativa ma anche ritmica come i luoghi e i personaggi di “Hemingway” (Timbucktu, Babalù, Zanzibar) le atmosfere sudamericane di “Tropical,” le citazioni cinematografiche di “Lo zio,” dove le parole vengono letteralmente masticate per rientrare nella strofa e per creare consonanze ritmicamente efficaci (“è tutto cinema, cinema, cinema, ah/come back to my old Chinatown”). La dialettica qui/altrove viene sfruttata non solo a livello spaziale ma anche temporale, permettendo stratificazioni musicali che ripercorrono la via del ricordo, della rêverie. È il caso di “Madeleine,” chiaro riferimento proustiano. L’io lirico, dialogando con la donna amata che porta il nome del dolcetto della Recherche tenta di rievocare un passato comune, perduto, ma che è forse possibile ritrovare insieme, forse tramite una canzone (perduta e ritrovata), ma anche grazie alla strategia musicale che guida le parole del personaggio, come ha magistralmente mostrato Stefano Della Via. All’introduzione pianistica di stampo liederistico, si inseriscono delle chitarre swing su stilemi blues e un’incalzante batteria che modifica il ritmo per raggiungere l’acme emotivo del brano, fino a sconfinare quasi nel bolero. Il testo parte con la ripetizione del deittico “qui” per poi lanciare un invito a ricordare nostalgicamente il passato. Fa seguito una parte più rapida in cui il tono si fa più scherzoso e allusivo menzionando la risaputa fuggevolezza e inaffidabilità di uomini che seducono ma che poi svaniscono “in una nebbia o in una tappezzeria” talvolta smentita da qualcuno che, come il protagonista del brano, vuole “tornare sotto certe carezze”. Perduto in un ricordo non nitido o in una lontananza geografica mal conosciuta, l’altrove temporale non può però essere descritto, come non lo sono le emozioni provate. È perciò frequente trovare nelle canzoni di Paolo Conte il topos dell’ineffabilità. Lo abbiamo In “Madeleine,” (“e non ci sono parole/per spiegare ed intuire…Madeleine/e caso mai, ricordare”), in “Bartali” per evocare il silenzio “tra una moto e l’altra c’è un silenzio, che descriverti non saprei”), in “Parigi,” dove l’io lirico riflette sull’inefficacia delle parole, (“Chissà cosa possiamo dirci/in fondo a questa luce…/quali parole?”). Più facile è parlare di musica. Numerosissime sono le canzoni che menzionano musicisti, ritmi, strumenti musicali, generi e stili. La passione giovanile per il jazz è evocata nella celebre “Sotto le stelle del jazz,” dove si descrivono i primi complessi musicali di Conte e gli eroi del jazz classico, il già menzionato Chick Webb in “Gong-oh,” Duke Ellington in “Lo zio.” L’orchestra di “Boogie” è composta da sax ipnotizzati e di un batterista che nell’ombra lancia “sguardi cattivi”, quella di “Come di” viene illusa a Napoli e sgridata a Minneapolis. I ritmi latini del tango e della rumba, le loro affinità e le loro differenze sono affrontate dal ballerino di Dancing, e la rumba è il “ritmo sconfinato” che irrompe e trascina il protagonista nella sua nostalgia del Mocambo. L’autorità del maestro capace di dominare un’orchestra “eccitata e ninfomane/chiusa nel golfo mistico” è al centro de “Il Maestro.” Ma il brano che è forse più immerso nella descrizione della musica nel suo farsi, in una sorta di composizione meta-musicale, è “Alle prese con una verde Milonga,” nella quale la voce narrante racconta la sua esperienza compositiva attraverso il risultato della stessa. Il musicista si cimenta in un corpo a corpo con il genere musicale e la danza argentino-uruguayana della milonga, e lo descrive. Descrive le emozioni che suscita in lui, i desideri reconditi, e descrive il suo gesto artistico, il fatto di renderla “canzone”, portandola “ad un ritmo più lento”, in modo da permettere alla milonga stessa, personificata, di rivelare nuovi significati ed emozioni.
Fughe vere e vagheggiate. Viaggi e naufragi.
I protagonisti delle canzoni di Paolo Conte sono spesso incastrati in una realtà, in uno stato esistenziale di malinconia, di chiusura verso il mondo, di dramma dell’incomprensione con l’ambiente circostante o con l’amata. La fuga è a volte strumento di seduzione, come gioco che spezza la monotonia e le convenzioni, per creare complicità e per contrastare il polveroso scorrere del tempo (“Fuga all’inglese,” “Via con me”). Altre volte è naufragio inaspettatamente fortunoso come nel caso di “Onda su onda,” ma anche metafora drammatica di un’integrazione non riuscita da parte di un lavoratore napoletano nel freddo capoluogo lombardo (“Naufragio a Milano”). La fuga assume anche i connotati di una gita che permette a un gruppo di amici di evadere dalle nebbie della pianura padana (“Chi siamo noi”), nella quale invece a volte il protagonista è immerso (“La fisarmonica di Stradella”), nella solitudine di un viaggio serale che attraversa le anonime cittadine del basso Piemonte (Broni, Casteggio, Voghera) per riaccompagnare la fidanzata addormentata dopo il ballo domenicale. Quando la meta evocata è il mare è possibile dare sfogo all’immaginazione sulle orme dei grandi viaggiatori (Caboto in “Chi siamo noi”), ma il mare può trasmettere anche una paura ancestrale che spinge a tornare alla piovosa pianura malgrado l’inquietante fascinazione esercitata dalla “macaia” – termine del dialetto genovese che indica lo sbalzo termico ad alto tasso di umidità che si produce in inverno nel golfo di Genova quando spira lo scirocco – e tutto quello che porta con sé: “scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea e fantasia”(“Genova per noi”). La fuga è spesso solo vagheggiata ma non attuata. Il protagonista del brano assapora la fuga come possibilità ma preferisce poi ripiegarsi su sé stesso in una solitaria contemplazione (“queste son situazioni di contrabbando/meglio star qui seduto a guardare il ciel”, Messico e nuvole o ancora Rebus: “Ah, è meglio star qui a guardare/i pianeti nuotare davanti a me/Nell’oscurità del rebus/Ah, che rebus”). Anche il protagonista di Azzurro prova a evadere con la fantasia cercando “un po’ d’Africa in giardino/tra l’oleandro e il baobab”, ma il rumore della gente glielo impedisce. L’incomunicabilità tra uomo e donna è al centro del desiderio di evasione in “Blue Haways” (“Il mio viso si intontiva/davanti al tuo parlare difficile/c’era da indossare subito/una camicia hawaiana/e sventolare contento/davanti a un cielo primitivo). Il viaggio hawaiano è tuttavia “blue”, malinconico, ed è solo “a dream in a dream”, un’evasione temporanea che prevede l’inesorabile ritorno all’incerto presente. Un sentimento blue dai toni esistenzialisti è sicuramente quello espresso nella bellissima “Una giornata al mare,” dove si vagheggia una comunicazione impossibile con una cameriera, che è ovviamente “straniera”, ma ancora di più con una donna angelo, una “dolce madonna sola”, anagraficamente vicina all’osservatore, che sembra condividere quella pensosa solitudine e nostalgia per un tempo perduto e irrecuperabile. Una solitudine pressoché simmetrica e speculare, che preclude pertanto ogni possibile incontro reale.
Talvolta il viaggio avviene nelle campagne piemontesi, ma non si tratta più di un viaggio di evasione per i protagonisti, ma il viaggio compiuto dai grandi ciclisti che percorrevano eroicamente le strade, le stradine delle province e delle campagne italiane. Si può trattare di un viaggio trasfigurato dal mito del ciclista Giovanni Gerbi, detto “Diavolo Rosso,” il cui soprannome dà il titolo alla canzone contenuta in Appunti di Viaggio (1982), mentre in “Bartali abbiamo” potuto vedere il tifoso sfegatato che racconta al ritmo della classica marcetta contiana, il passaggio del campione con “quel naso triste come una salita” e “quegli occhi allegri da italiano in gita”. Ma qui Il paesaggio è schizzato sinesteticamente (“abbaia la campagna, c’è una luna in fondo al blu”), in “Diavolo Rosso” è posto al centro della scena attraversato della velocità sfrenata del ciclista in piena trance agonistica. La sua velocità è rappresentata dalla musica con un foxtrot che nei live è spinto all’estremo grazie al ritmo incalzante di ben tre chitarre e svariati momenti solistici, che dilatano la durata della canzone oltre i dieci minuti. Creato questo sfondo sonoro, che evoca in modo icastico la pedalata frenetica del ciclista, si inserisce la sezione fiati (fagotto, clarinetto, sax soprano, flauto traverso, e nella tournée del 2013 si aggiungono anche violino e fisarmonica), con assoli, piccoli accenti, o accordi dissonanti, il tutto accompagnato da qualche nota o accordo (un RE minore) di pianoforte suonato con apparente nonchalance da un Conte che dirige con gesti discreti e sguardi obliqui di complicità e ammirazione nei confronti dei suoi musicisti. Una pedalata scandita da una pluralità di incontri, sebbene fugaci, con il paesaggio, con gli abitanti e con i personaggi che lavorano all’interno della competizione sportiva. Si delinea la fisionomia forse un po’ felliniana di quelle “regine di corriere e paracarri” che dispensano sostegno pratico, morale ed anche erotico (“le amanti di pianura”) con la loro “discrezione antica”. Un carrozzone-carovana che incontra una campagna semideserta, silenziosa, buia, falcidiata dalla fame e dalla malattia. Una campagna piemontese arcaica e mitica, dove giovani spose partoriscono “uomini grossi come alberi”. A volte il punto di vista dell’io lirico è tuttavia arroccato all’elemento protettivo della casa in opposizione a un viaggio di cui non si colgono le motivazioni, come d’altronde esplicita il ritornello di “Diavolo Rosso” (“Ah Diavolo Rosso, dimentica la strada, vieni qui con noi a bere un’aranciata, controluce tutto il tempo se ne va”).
Bibliografia:
- Ernesto Capasso, Paolo
Conte, il viaggiatore dei Paesaggi cantati. Arcana, 2013.
- Paolo Conte, Si sbagliava
da professionisti. Canzoniere commentato. Einaudi, 2003.
- Enrico Stefano Della Via, Poesia
per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte.
Carocci, 2020.
- Enrico De Angelis, Tutto
un complesso di cose. Il libro di Paolo Conte, Giunti, 2011.
Bibliografia:
- Ernesto Capasso, Paolo Conte, il viaggiatore dei Paesaggi cantati. Arcana, 2013.
- Paolo Conte, Si sbagliava da professionisti. Canzoniere commentato. Einaudi, 2003.
- Enrico Stefano Della Via, Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte. Carocci, 2020.
- Enrico De Angelis, Tutto un complesso di cose. Il libro di Paolo Conte, Giunti, 2011.