Ho visto un re

Written by Dario Fo, Paolo Ciarchi (1964)

– Dai dai, conta su… ah be, sì be!
– Mi? no, mi?
– Sì, sì propi ti!

– Ho visto un re.
– Sa l’ha vist cus’e`?
– Ha visto un re!
– Ah, beh; si`, beh.
– Un re che piangeva seduto sulla sella
piangeva tante lacrime, ma tante che
bagnava anche il cavallo!
– Povero re!
– E povero anche il cavallo!
– Ah, beh; si`, beh.

– E’ l’imperatore che gli ha portato via
un bel castello…
– Ohi che baloss!
– …di trentadue che lui ne ha.
– Povero re!
– E povero anche il cavallo!
– Ah, beh; sì, beh.

– Ho visto un ve…
– Sa l’ha vist cus’e`?
– Ha visto un vescovo!
– Ah, beh; si`, beh.
– Anche lui, lui, piangeva,
faceva un gran baccano,
mordeva anche una mano.
– La mano di chi?
– La mano del sacrestano!
– Povero ve-scovo!
– E povero anche il sacrista!
– Ah, beh; si`, beh.

– E’ il cardinale che gli ha portato via
un’abbazia…
– Oh poer crist!
– …di trentadue che lui ce ne ha.
– Povero vescovo!
– E povero anche il sacrista!
– Ah, beh; si`, beh.

– Ho visto un ric…
– Sa l’ha vist cus’e`?
– Ha visto un ricco! Un sciur!
– S’…Ah, beh; si`, beh.
– Il tapino lacrimava su un calice di vino
ed ogni go, ed ogni goccia andava…
– Deren’t al vin?
– Si`, che tutto l’annacquava!
– Pover tapin!
– E povero anche il vin!
– Ah, beh; si`, beh.

– Il vescovo, il re, l’imperatore
l’han mezzo rovinato
gli han portato via
tre case e un caseggiato
di trentadue che lui ce ne ha.
– Pover tapin!
– E povero anche il vin!
– Ah, beh; si`, beh.

– Ho vist un vilàn.
– Sa l’ha vist cus’e`?
– Un contadino!
– Ah, beh; si`, beh.
– Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore,
persino il cardinale,
l’han mezzo rovinato
gli han portato via:
la casa, il cascinale
la mucca, il violino
la scatola di kaki
la radio a transistor
i dischi di Little Tony
la moglie!
– E po`, cus’e`?
– Un figlio militare
gli hanno ammazzato anche il maiale.
– Pover purscel!
– Nel senso del maiale…
– Ah, beh; si`, beh.

– Ma lui no, lui non piangeva, anzi: ridacchiava!
Ah! Ah! Ah!
– Ma sa l’e`, matt?
– No!
– Il fatto e` che noi vilàn…
Noi villan…
E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam.

E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!

I Saw a King

Translated by: Francesco Ciabattoni

– Come on, tell us… oh, wow, a’right!
– What, me? No!
– Yes, just you!

– I saw a king
– He seen what?
– He seen a king!
– Oh wow, a’right.
– A king who was crying sitting on the saddle
he cried so many tears he was getting
even the horse wet!
– Poor king!
– And poor horse too!
– Oh wow, a’right.

– It’s the emperor that took
a nice castle from him…
– Oh, what a rascal!
– … of the thirty two he owns.
– Poor king!
– And poor horse too!
– Oh wow, a’right.

– I saw a bish…
– He seen what??
– He saw a bishop!
– Oh wow, a’right.
– He too was crying,
making a ruckus,
he was even biting a hand

– Whose hand?
– The sexton’s hand!
– Poor bishop!
– And poor sexton too!
– Oh wow, a’right.

– It’s the cardinal that took
an abbey from him
– Oh poor devil!
-… of the thirty-two he owns
– Poor bishop
– And poor sexton too!
– Oh wow, a’right.

– I saw a ric…
– He seen what?
– He saw a rich man, a signore.
– Oh wow, a’right.
– The poor man wept over a wine goblet
and every dro-, and every drop went in
– Into the wine?
– Yes, and watered it all down!
– Poor wretch!
– And poor wine too!
– Oh wow, a’right

– The bishop, the king, the emperor
have half-ruined him
they took from him
three houses and a building
of the thirty-two that he owns.
– Poor wretch!
– And poor wine too!
– Oh wow, a’right.

– I saw a farmhand.
– He seen what?
– A peasant!
– Oh wow, a’right.
– The bishop, the king, the rich man, the emperor,
even the cardinal,
they’ve half-ruined him
they took from him:
the house, the farm,
the cow, the violin,
the box with the chess pieces,
the transistor radio,
the records by Little Tony
his wife!
– and then what?
– A son of his was drafted.
and they killed his pig too.
– Poor swine!
– meaning the pig…
– Oh wow, a’right.

– But no, he did not cry, in fact
he giggled
Ah! Ah! Ah!
– What, is he crazy?
– No!
– the thing is, us peasants…
us peasants
we always have to be happy,
‘cause our own crying would hurt the King,
would hurt the cardinal and the rich man,
it saddens them to see us cry.

We always have to be happy,
‘cause our own crying would hurt the King,
would hurt the cardinal and the rich man,
it saddens them to see us cry!

 

“Ho visto un re” (di Carlo Testa, University of British Columbia)

“Ho visto un re” si apre con una bizzarra apostrofe al cantante da parte dell’“assemblea popolare” in ascolto che chiede di raccontare la storia (“Dai conta su!”). Equivalente moderno e della povera gente dell’“intellettuale organico” di Gramsci, il narratore immaginario appare distaccato, riluttante: (“Mi? no, mi?”). Ci si chiede quale sia la causa della sua esitazione, finché non diventa chiaro che può, ahimè, esprimersi soltanto utilizzando il veicolo artistico standardizzato dell’italiano letterario. Poiché la vox populi (i contadini che poi appariranno di persona alla fine del testo) parla – o, meglio, interviene – in questa fase solo con una serie rudimentale di espressioni dialettali, l’uso da parte del narratore della lingua letteraria egemonica crea una frattura ideologica, un divario che ostruisce la comunicazione. Ma il disagio iniziale di questo rapporto ripaga altrove, poiché il cantante riesce a trasmettere questa espressione artistica dell’emarginazione contadina locale al pubblico italofono: a noi ascoltatori.

La ballata continua: il Re, che il narratore ha visto, è infelice – arriva addirittura a piangere – perché l’Imperatore che è più importante di lui gli ha portato via uno dei suoi trentadue castelli. Anche il Vescovo era in lacrime, perché il Cardinale, che è più importante di lui,

gli ha sottratto una delle sue trentadue abbazie. Presumibilmente nelle vicinanze, l’Uomo Ricco si trova nella stessa situazione: il Vescovo, il Re e l’Imperatore lo hanno quasi rovinato, portandogli via tre case e un grattacielo tra i trentadue che possedeva. Ma – ed è proprio questo il punto del testo – tutto ciò è solo metà della storia. Spronato nell’impresa dalle interiezioni del vilàn il cantastorie, da vero intellettuale del ceto contadino quale è, non ha omesso di citare dettagli rivelatori sul piano dei rapporti di classe: ad esempio, quando il Vescovo si consuma dei dispetti, non si morde le dita: morde quelle del sagrestano. Il conflitto di classe è quindi altamente visibile in tutto il testo.

L’ultima strofa è quella che prosegue facendo piena luce sul contrasto tra chi ha e chi non ha. Qui, il flagello (inspiegabile) della guerra di classe si abbatterà sull’archetipo dei poveri europei: i contadini stessi. (Forse la circostanza non aveva bisogno di alcuna spiegazione: la canzone, dopo tutto, fu pubblicata nel 1969, l’anno che inaugurò il periodo politicamente più conflittuale della storia italiana moderna). Quando inizia la strofa, i contadini in ascolto non si riconoscono nemmeno nello specchio che Enzo Jannacci tiene davanti a loro: il cantante dice «Vist un vilàn», e subito gli viene detto di spiegare la parola. Lo fa, in linguaggio letterario e con un accento grottescamente altezzoso: “Un contadino!” uno dei contadini normalizzati e rispettosi della legge (quasi rispettosi della lingua) a malapena in grado di borbottare.

Poiché ormai i contadini «esistono» come classe perché hanno la consapevolezza di esserlo, la strofa conclusiva può finalmente rappresentare in tutta la sua portata la loro situazione. Con sforzi concertati, il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore, «anche il cardinale» (ma non il sagrestano, il cui status di vittima è così confermato), hanno «mezzo rovinato» anche il contadino. Come? Togliendogli

La casa, Il Cascinale.
La mucca. Il violino
La scatola con gli scacchi.
La radio è un transistor.

I dischi di Little Tony.
La moglie […]
Un figlio militare,
Gli hanno ammazzato anche il maiale.

Al che, non a caso, il coro contadino risponde con la consueta vena di umanità comprensiva: “pover pursell”: “povero maiale”.

Che cosa fa dunque il contadino? Piange anche lui? Lontano da esso. Lui . . . risatine (‘ridacchiava’). Momento di silenzio imbarazzato nella canzone. Il nocciolo della parabola diventa evidente quando il narratore mette a confronto il comportamento ipocrita del re, del vescovo e dell’uomo ricco con quello dei contadini generosi (altruisti forse?): non è “pazzo”, come sospetta per un momento il coro.

Narratore:
Na! Il fatto è che noi villan…

Tutti:
E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere gli male al re,
Fa male: al ricco e al cardinale,
diventan tristi se noi piangiam.

Poi, festosamente, con entusiasmo, in un frenetico crescendo rossiniano, il coro si unisce a cantare: “Dobbiamo essere sempre felici, / “Perché il nostro pianto ferirebbe il Re”, ecc., ad libitum. Il narratore e la sua comunità hanno finalmente colmato il divario delle identità separate; hanno, letteralmente, trovato una voce comune, una
dichiarazione politica comune, anche se solo beffarda e derisoria. Il loro linguaggio in qualche modo si trova a cavallo tra la norma dell’establishment e l’anti-norma degli emarginati: cantano in italiano letterario – il narratore ha probabilmente esteso ai suoi pari il suo status di alfabetizzato e li eleva al livello articolato che solo può garantire uno spazio nella storia culturale tradizionale. In modo significativo, così facendo, anche il suo discorso ha perso l’anello monoglosso che aveva in precedenza. L’aggettivo
‘alegri’ è pronunciato con il sostrato della forma milanese ‘alegher’, e ‘perché’ si abbrevia in ‘che’. Allo stesso tempo, i contadini, prima ribattezzati con la forza ‘contadini’, sono ora tornati alla loro vera identità: ‘Noi vilàn’ è il modo in cui si definiscono per ben due volte nel tutti che chiude il brano e offre la prova tangibile del recupero della consapevolezza di sé. Lo stallo tra le belle lingue mutuamente incompatibili di due culture opposte viene risolto solo quando l’enunciazione a una voce della convenzione artificiale viene adattata per includere e accogliere le esigenze dei diversi interlocutori. Filtrato attraverso la voce dell’Altro, il linguaggio ha ora trasferito la polifonia da un dialogo esterno di fonti diverse al dialogismo interno di uno solo, quello unico del narratore e del coro.

Tradotto da: Testa, Carlo, ‘The Dialectics of Dialect: Enzo Jannacci and Existentialism’, Canadian Journal of Italian Studies 52 (1996), pp. 19-40. L’articolo intero è disponibile sul profilo Acedemia.edu profile </a> del prof. Testa