(Jonia, 1945 – Milo, 2021)
Di Jan Gaggetta (Université de Fribourg)
«Dividerei il mio periodo, finora, in tre fasi».
Battiato stesso, in un recente film-documentario (Temporary Road, 2018), distingue la sua lunga e prolifica carriera musicale in tre fasi, diverse per durata e, soprattutto, per tipologia di musica prodotta[1]. La prima (1967-69) segue l’«andata via dalla Sicilia»: un giovanissimo Battiato decide di lasciare l’isola natia per trasferirsi a Milano, dove incide 45 giri di canzoni semplici – di cui non sempre è autore – con sonorità tipiche degli anni Sessanta. La seconda (1971-78) copre buona parte degli anni Settanta, quando Battiato affronta «un altro genere musicale», elettronico e sperimentale, stabilendo una rottura netta rispetto alle incisioni precedenti. La terza (1979-2020) incomincia sul finire di quel decennio e prosegue fino ad oggi, segnando la sua «appartenenza alla musica di comunicazione»: Battiato si afferma come vero e proprio cantautore.
ROTTURA E SPERIMENTAZIONE (1971-1978).
Se l’ultima è di gran lunga la più conosciuta ed apprezzata, la seconda fase appare come la più varia e complessa, tanto che quanto Battiato produce in quel giro d’anni sembra, a tratti, inclassificabile e perfino incomprensibile. Fra il 1971 e il 1978 Battiato produce esattamente otto dischi, con una cadenza quasi annuale: i primi quattro (Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic, 1971-74) possono definirsi di sperimentazione elettronica, mentre i successivi (M.elle le “Gladiator”, Battiato, Juke box, L’Egitto prima delle sabbie, 1975-78) di sperimentazione colta: se fino al 1974 la ricerca musicale e sonora di Battiato si compie, in buona misura, attraverso l’uso del sintetizzatore—strumento elettronico che permette di generare note di numerosi strumenti, suoni, rumori—dal 1975 è il pianoforte a diventare fondamentale, per produrre una musica concettuale, unitamente alla tecnica del “collage” (l’assemblaggio di frammenti musicali e sonori eterogenei). Ma procediamo con ordine.
La musica “elettronica”, le origini della vita: Fetus.
L’acquisto di un VCS3, sintetizzatore analogico, avviene nel 1969 ed è un avvenimento decisivo: Battiato, fra i primi a possederne uno in Europa (assieme ai Pink Floyd), avvia delle ricerche che lo faranno diventare un precursore, in Italia, della musica elettronica. Il primo risultato, giudicato dall’autore stesso un frutto ancora acerbo, è l’album Fetus (1971). Battiato sorprende, negli anni Settanta, non soltanto per i contenuti musicali: la copertina del disco, che suscita un certo scandalo, ritrae infatti un feto umano, adagiato su un foglio di carta grezza, di quelli usati per incartarvi il cibo. Fetus è dedicato allo scrittore inglese Aldous Huxley, autore del romanzo distopico Il mondo nuovo (prima ed. 1932) sull’eugenetica e sul controllo della società e degli individui. Le musiche, fondate sul sintetizzatore VCS3, sono un progressive rock elettronico, mentre i testi, avveniristici, raccontano—in estrema sintesi—del concepimento e della nascita di una vita in un mondo meccanico e senza amore. Pure il linguaggio dei testi è teso alla sperimentazione, spinto verso frontiere insolite: Battiato arriva a concludere un brano, “Fenomenologia”, cantando (urlando) le due funzioni matematiche:
x1= a.(sin(ωt))
x2=a.(sin(ωt+γ))
che dovrebbero, insieme, “disegnare” la struttura elicoidale del DNA. Pertinente, in un disco che racconta della nascita, ma assolutamente insolito per la lingua della canzone. Questo è certo un caso-limite, e tuttavia in Fetus si trovano tracce di lingue tecniche, scientifiche: il disco guarda e descrive la vita da un punto di vista (anche) biologico e meccanico. Un testo decisamente riuscito, quello di “Energia”, accantona i tecnicismi ed apre ad una riflessione esistenziale:
Ho avuto molte donne in vita mia
e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia
quanti figli dell’amore ho sprecato io
racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura.
Se un figlio si accorgesse che per caso
è nato fra migliaia di occasioni
capirebbe tutti i sogni che la vita dà
con gioia ne vivrebbe tutte quante le illusioni.
Quante lacrime ho strappato senza mai piangerci su
quante angosce ho provocato
per godere un po’ di più
quante frasi false ho detto quante strane verità
per fare sul mio metro questa personalità.
(“Energia,” 1972)
Con la considerazione, nella strofa centrale, della assoluta casualità e gratuità della vita (mentre quella finale, amara, denuncia la falsità del rapporto umano, il dolore causato e le bugie dette per perseguire il piacere e costruirsi una personalità). Nonostante l’eccentricità, i testi di questo periodo sono solcati da un’inquietudine esistenziale che non abbandonerà mai Battiato e che sembra presagire, qui, la ricerca spirituale che si manifesta nella sua produzione cantautorale.
Inquinamento e vita organica. Pollution.
Il secondo LP di Battiato, Pollution (1972), segue musicalmente il solco tracciato da Fetus, proseguendo la sperimentazione di un progressive rock elettronico. Lo strumento fondante, sia nell’esecuzione che nella creazione dei brani, rimane il sintetizzatore VCS3. Pure sul versante testuale vi è continuità con il disco precedente:
Pollution è (anche) una riflessione sull’origine, e sull’utilità, della vita, questa volta non esclusivamente umana ma allargata alla dimensione organica—accanto all’intrusione delle macchine, dei dispositivi meccanici costruiti dall’uomo, con le loro conseguenze spiacevoli e negative: l’inquinamento, appunto. Si trovano sempre residui di lingue tecniche, come nel caso della canzone omonima, in cui si sconfina nella termodinamica:
La portata di un condotto
è il volume liquido
che passa in una sua sezione
nell’unità di tempo:
e si ottiene moltiplicando
la sezione perpendicolare
per la velocità che avrai del liquido.
(“Pollution,” 1972)
Riteniamo che questi versi ci autorizzino a interpretate il titolo dell’album e della canzone, Pollution, in due modi, secondo due accezioni diverse: certo indica l’inquinamento prodotto dalle macchine, ma potrebbe pure essere una vera e propria polluzione, qui descritta, un’eiaculazione in linea con il discorso avanzato da Fetus; un atto fisiologico altrettanto ed anzi più gravido di conseguenze, non sempre felici (si ripensi ai «figli dell’amore sprecati [che] ormai saranno spazzatura» di “Energia”).
Battiato cita, qua e là, brani di musica classica – come già in Fetus -, ad esempio nel riuscito finale di “Beta”, quando Battiato, sul sottofondo del tema principale della “Moldava” del compositore ceco Bedřich Smetana (1874) recita le frasi:
Dentro di me vivono la mia identica vita
dei microrganismi che non sanno
di appartenere al mio corpo.
Io a quale corpo appartengo?
(“Beta,” 1972)
La “Moldava” è un’opera, inserita in un ciclo di poemi sinfonici intitolato Ma Vlast (La mia patria), che descrive il corso del fiume omonimo, dall’unione iniziale delle sue sorgenti allo scorrere impetuoso nei boschi della Boemia fino all’attraversamento della città di Praga. Battiato sul tema principale del poema sinfonico, citato, recita le due frasi riportate: nella prima afferma l’esistenza di vite, di microrganismi, nel suo stesso corpo, e nella seconda si pone un quesito esistenziale. La citazione del poema sinfonico di Smetana è coerente, ci pare, per due ragioni: si tratta, in entrambi i casi, di individualità che si fondono in un’entità più ampia (con un allargamento della prospettiva); e si tratta di una musica romantica nazionalista, che descrive con orgoglio una patria, un’entità superiore al singolo, in accordo con il senso di ‘appartenenza’ (non è esclusa una certa ironia, di Battiato, nei confronti del nazionalismo: a lui interessano ordini superiori meno contingenti, meno storicamente determinati).
Infanzia e Oriente. Sulle corde di Aries.
Nel suo terzo LP, Sulle corde di Aries (1973), Battiato si sgancia dalla ritmica della produzione precedente, di matrice progressive rock, e subentrano delle percussioni dal gusto etnico. Le melodie del canto guardano verso Oriente e le tracce nel complesso si fanno più ariose, libere, non ancorate alla forma-canzone che contraddistingueva (nonostante lo sperimentalismo) Fetus e Pollution. L’elettronica dei dischi precedenti convive, oltre che con gli accenni etnici, con il jazz. Nei temi, così come nel linguaggio dei testi, vi è un ulteriore cambiamento: si rivela il motivo dell’infanzia ed appaiono avvenimenti storico-politici. Entrambi, però, complice l’atmosfera musicale distesa, vengono affrontati con uno sguardo nostalgico e diremmo quasi atemporale. “Sequenze e frequenze”, il primo brano, è una lunga suite di oltre quindici minuti che mette a tema l’infanzia, la contemplazione, il senso di estraneità:
La maestra in estate ci dava ripetizione nel suo cortile
io stavo sempre seduto sopra un muretto a guardare il mare
ogni tanto passava una nave, ogni tanto passava una nave.
E le sere d’inverno restavo rinchiuso in casa ad ammuffire
fuori il rumore dei tuoni rimpiccioliva la mia candela
al mattino improvviso il sereno mi portava un profumo di terra.
(“Sequenze e frequenze,” 1983)
“Aria di rivoluzione”, pur raccontando una storia collettiva – con accenni al colonialismo, alla guerra – mantiene uno sguardo ampio, metastorico, concludendosi, come spesso nel Battiato dei primi anni Settanta, con una considerazione pessimistica:
Passa il tempo, sembra che non cambi niente
questa mia generazione vuole nuovi valori
e ho già sentito aria di rivoluzione
ho già sentito gridare chi andrà alla fucilazione.
(“Aria di rivoluzione,” 1973)
Tuttavia è evidente l’emersione di motivi personali e collettivi contingenti, rispetto alla riflessione impersonale sulla vita, nonché l’adesione ad una lingua più usuale per la canzone, abbandonando i tecnicismi scientifici che contraddistinguevano i dischi precedenti. Battiato, nelle sue esibizioni live dei decenni successivi, eseguirà a volte “Sequenze e frequenze” e “Aria di rivoluzione”, dimostrando di ritenerli brani sempre validi.
Un disco di transizione.
Clic (1974) è un disco di transizione, che conduce a quelli successivi, qui in alcuni aspetti anticipati o presentiti. Proseguono, infatti, le linee di ricerca precedenti, con l’uso del sintetizzatore per musiche elettroniche (“Proprietad prohibida”, un capolavoro del Battiato elettronico), la rarefazione e la distensione dei suoni (“I cancelli della memoria” e “Nel cantiere di un’infanzia” con risultati inquietanti), l’adozione di melodie vocali e strumentali orientaleggianti (una parte di “No U Turn”). Nel contempo emerge, fra gli strumenti impiegati, il pianoforte (“Il mercato degli Dèi”, “Rien ne va plus: andante!”), che sarà fondamentale negli anni a seguire, e soprattutto Battiato inizia a cimentarsi con il collage, costruendo dei brani (ancora “Rien ne va plus: andante!” e “Ethika for Ethica”) giustapponendo brevi esecuzioni al piano, suoni, voci registrate, incisi melodici, cori. “No U Turn” è l’unica traccia del disco con un testo, apparentemente delirante; da qui in avanti, nei quattro dischi successivi, Battiato si dedicherà esclusivamente alla ricerca sonora e musicale, senza scrivere un testo fino alla sua svolta cantautorale.
Per conoscere me e le mie verità
io ho combattuto fantasmi di angosce con perdite di io
per distruggere vecchie realtà
ho galleggiato su mari di irrazionalità
ho dormito per non morire
buttando i miei miti di carta su cieli di schizofrenia.
(“No U Turn,” 1974)
Esplode il collage: M.elle le “Gladiator”. Come detto in precedenza, si apre un nuovo periodo, nel 1975, con Battiato che accantona le sperimentazioni con il VCS3 per concentrarsi su brani di collage sonori da un lato, e di esecuzioni minimaliste al pianoforte dall’altra. M.elle le “Gladiator” (1975) costituisce il momento più spregiudicato nell’uso del collage. “Goutez et comparez”, prima traccia del disco, assembla codice morse, parlati, canti orientali, rumori metallici, vocalizzi, prove microfono, versi declamati, suoni di campane, un temporale, frammenti di canzonette, di musica classica, motori, voci liriche, urla, la voce di Battiato stesso, stralci di telegiornale, registrazioni della voce di Filippo Tommaso Marinetti, esecuzioni all’organo ed altro. L’operazione, sconcertante, pare una presa in giro, oppure una sfida lanciata all’ascoltatore (e al critico) che deve trovare nell’ammasso di suoni ritmo, melodia, armonia[2]. Importa, in questa fase, il suono più che la musica. Battiato raggiunge la sua provocazione massima; ma, forse, l’esperienza va considerata in prospettiva futura. Non ci pare improprio vedere una relazione fra questi tentativi, di collages sonori e musicali, con la tecnica di scrittura dei testi attraverso il cut-up, usata per alcune canzoni degli anni ’80.
“Orient effects”, la traccia conclusiva, è un’improvvisazione all’organo registrata in presa diretta al Duomo di Monreale (Palermo). La musica, pure qui, sconfina nel suono, nel rumore. Si può citare un’affermazione tratta dal film-documentario già menzionato: «Erano cose veramente inaccettabili, perché non mi preparavo, facevo solo musica improvvisata; e magari dopo tre quarti d’ora di improvvisazione aprivo gli occhi, e non capivo neanche più dove mi stessi trovando». Battiato in questo caso si riferisce alle sue esibizioni live, durante festival e concerti, nei primi anni Settanta: ma l’affermazione ci pare adeguata per descrivere lo straniamento dell’improvvisazione di “Orient effects”.
La musica “colta”.
Battiato (1977) e L’Egitto prima delle sabbie (1978) sono due dischi simili, in cui si manifesta un’idea compositiva e musicale precisa, minimalista[3]. “Za”, il lato A di Battiato, è composto da un unico accordo, eseguito al pianoforte, solo leggermente variato per i venti minuti del brano; questo accordo, suonato in modo percussivo, produce un effetto di risonanze che vanno a sommarsi e scomparire. Battiato afferma che «ha bisogno di un ascolto che definirei meta-analitico, a favore di una non-spazialità a-temporale»[4]; ed in effetti induce a riflettere sul senso della durata psicologica dell’ascolto (il tempo pare dilatarsi, prendere spazio). “Caffè table musik”, sul lato B, prosegue i tentativi di collage, che qui si limitano però a voci (parole, vocalizzi, poesie, conversazioni, voci che parlano in siciliano) suoni, versi di animali, e brani al pianoforte: l’impressione è di una coerenza più forte rispetto ai tentativi precedenti. “L’Egitto prima delle sabbie”, traccia che apre l’album omonimo (1978), si compone di un’unica scala musicale ripetuta, in questo simile al procedimento di “Za”; la scala è suonata ad intervalli differenti, con un effetto simile di distensione temporale, e con le risonanze che creano ogni volta un suono diverso (si produce variazione dall’esecuzione dell’identico). L’impostazione è ancora minimalista, e ci sembra di poter dire che la traccia è una riflessione musicale sul tempo e sulla variazione.
Questo periodo, di cui fa parte L’Egitto prima delle sabbie, è quello che considero il più alto della mia produzione. […] Allora sono riuscito a fare una musica essenziale e di una certa purezza. I risultati dipendevano anche dallo strumento usato: il pianoforte con il suo mondo di risonanze[5].
Conclusione. I modelli di Battiato e le esperienze future.
Per orientarsi, nella complessa produzione sperimentale di Battiato negli anni ’70, abbiamo implicitamente individuato tre direzioni da lui percorse: quella dell’elettronica, aperta dall’acquisto del sintetizzatore VCS3; quella del collage, che si fonda sul montaggio di materiale musicale e sonoro; e quella della musica minimalista eseguita al pianoforte. Senza appesantire il discorso, le sperimentazioni di Battiato implicano dei modelli d’influenza che vanno almeno citati: per l’elettronica il panorama musicale tedesco degli stessi anni e l’amico Karlheinz Stockhausen; per il collage le operazioni di John Cage; per il minimalismo le esperienze degli americani Steve Reich, Terry Riley, Philip Glass. Battiato si dimostra attento a recepire le innovazioni che arrivano dall’estero, e contribuisce a diffonderle, a suo modo, in Italia. Nel libro-intervista citato, Tecnica mista su tappeto, Battiato parla apertamente delle sue influenze, dei debiti nei confronti dei compositori stranieri citati, a volte evidenziando le differenze rispetto alle sue operazioni. Come per l’uso del collage e del modello di Cage, quando afferma che «non c’era in me l’atteggiamento ideologico che c’era in Cage. I suoni che accumulavo non erano di natura filosofica, ma semplicemente sonora. Cage teorizza la scomparsa del compositore e lascia che il mondo risuoni in modo casuale. Io cercavo di dare un senso musicale ai miei dischi». La sua intenzione ‘sonora’ e non ‘filosofica’ e la sua ricerca empirica sono ribadite nel confronto con i minimalisti, quando il musicista siciliano dice che «c’è un motivo fondamentale che mi lega a Steve Reich, Terry Riley, Philip Glass e gli altri minimalisti. Siamo musicisti, non teorici, e viviamo per il suono […] per loro non nasce prima la teoria, ma il piacere del suono e la sua composizione»[6].
Provare a capire l’esperienza musicale e sonora di Battiato durante gli anni ’70 è fondamentale, in prospettiva, anche per valutare la produzione successiva, cantautorale, degli anni ’80 e oltre. La sperimentazione elettronica lascerà ampie tracce negli arrangiamenti di dischi quali La voce del padrone (1981); la tecnica del collage musicale pare annunciare quella del cut-up con cui Battiato scriverà alcuni dei suoi testi più famosi; e l’esperienza minimalista è senz’altro una manifestazione della sua ricerca di purezza che guiderà, in altro modo, la sua vita e la sua opera successiva.
[1] Temporary Road. (una) Vita di Franco Battiato, dialogo con Giuseppe Pollicelli (con DVD), La nave di Teseo, Milano, 2018.
[2] Juke Box (1977) è, in questo, simile a M.elle le “Gladiator”. Il solo accenno a quel disco, di cui evitiamo un’analisi approfondita, si spiega col fatto che in origine quelle musiche erano pensate come colonna sonora di uno sceneggiato su Brunelleschi; rifiutate, vengono raccolte nel disco e pubblicate nel 1977.
[3] Il minimalismo è una «corrente compositiva nata negli USA intorno agli anni Sessanta del Novecento […] Soprattutto alle origini, il linguaggio del minimalismo si basava sulla ripetizione intensiva di brevi patterns (“moduli”) ritmico-melodici, sottoposti a lentissime e graduali modificazioni, fino a una completa trasformazione del pattern e della texture iniziali. In generale il minimalismo presenta una semplificazione ritmica, melodica e armonica rispetto alla complessità in uso nella musica seriale, anche nell’intento di acquisire una maggiore accessibilità da parte di un pubblico non specializzato» (voce ‘minimalismo’ in Breve lessico musicale, a cura di F. Della Seta, Carocci, Roma, 2009).
[4] https://www.battiato.it/battiato/. Sul sito ufficiale, alla voce ‘discografia leggera’, ogni disco di Battiato è provvisto di una breve nota di presentazione.
[5] Franco Battiato, Tecnica mista su tappeto, conversazioni autobiografiche con F. Pulcini, EDT, Torino, 1992, p. 28.
[6] Ivi, pp. 23-25.
IL CANTAUTORE (1979-2020)
«Non dimentichiamoci che anche le prigioni
sono interessanti: non quando ci sei costretto
dentro da qualche istituzione, ma quando
tu decidi che una sola stanza è l’universo»[1].
Franco Battiato abbandona, sul finire degli anni ’70, le sperimentazioni elettroniche e le avanguardie colte che avevano orientato la sua attività musicale, per inoltrarsi nel mondo della musica leggera, fino ad allora accuratamente evitato (ad esclusione delle primissime incisioni, una manciata di 45 giri, sul finire degli anni ’60). Esce dalle quattro mura nelle quali si era volontariamente recluso – non solo in senso figurato: dirà di aver passato mesi, chiuso in una stanza, solo col suo sintetizzatore – per conquistarsi un vasto pubblico. Porta con sé un bagaglio di esperienze musicali notevole, nonché le sue ricerche spirituali, iniziate negli anni ’70, e le impressioni di numerosi viaggi nel mondo, specie orientale. La tematizzazione del suo percorso interiore e dei viaggi orientali, unite alla frequente riemersione di infanzia e adolescenza – rievocate con toni nostalgici, a tratti quasi mitici – daranno linfa a numerosissime canzoni; combinando il tutto con uno stile ironico, fin da subito identificabile, Battiato inciderà brani acclamati sia dal pubblico che dalla critica, toccando il suo vertice nei primissimi anni ’80.
Pieni gli alberghi a Tunisi
per le vacanze estive
a volte un temporale
non ci faceva uscire
un uomo di una certa età
mi offriva spesso sigarette turche ma
spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco
spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco.
(“L’era del cinghiale bianco,” 1979)
Battiato in veste di cantautore esordisce con questa manciata versi, nell’omonima canzone dell’album L’era del cinghiale bianco (1979). Il disco vede la partecipazione di musicisti notevoli; uno di essi, Giusto Pio, sarà un sodale indispensabile per Battiato, la loro collaborazione si estenderà per decenni e darà vita alle canzoni più conosciute dell’artista siciliano[2]. L’albumcontiene canzoni esemplari di quello che sarà il percorso artistico di Battiato: nel disco si mescolano ricordi d’infanzia (“Stranizza d’amuri”, testo in dialetto siciliano), influenze orientali (“L’era del cinghialebianco”, “Strade dell’Est”), accenni esoterici (“Il Re del mondo”). Tutto combinato e restituito in maniera spesso ironica e, pure, autoironica. L’esoterismo a cui Battiato si riferisce nella citata “Il Re del mondo”, ad esempio, è desunto dalle riflessioni di René Guénon (autore di un libro omonimo, Le Roi du Monde, 1927); tuttavia il pensatore francese viene citato nella dissacratoria “Magic Shop,” dove Battiato se la prende con uno spiritualismo ridotto alla superficie, vittima del consumismo[3]. Il testo comprende, nell’elenco di manifestazioni spirituali e religiose prese in giro (perché svilite dalla scarsa conoscenza o dall’obbedienza ad una moda), l’esoterismo dello studioso francese:
C’è chi parte con un raga della sera
e finisce per cantare “La paloma”
e giorni di digiuno e di silenzio
per fare i cori nelle messe tipo Amanda Lear
[…]
E più si cresce e più mestieri nuovi
gli artisti pop i manifesti ai muri
i mantra e gli hare hare a mille lire
l’esoterismo di René Guénon.
(“Magic shop” 1981)
Non è impresa facile cogliere l’(auto)ironia di Battiato, che infatti ha ricevuto, nella sua carriera, alcune critiche per stile dei suoi testi. I detrattori denunciavano spesso e volentieri un apparente sfoggio di cultura, accusando Battiato di perseguire un citazionismo incontrollato e intellettualoide. Tuttavia proprio in quella tecnica di scrittura e composizione, che potremmo definire vagamente “postmoderna”, sta una sua cifra stilistica rilevante; e non va ignorato l’effetto appunto ironico, dissacratorio, che a volte ne consegue[4]. Come non è improprio parlare di un nomadismo culturale e geografico, presente nelle canzoni di Battiato, originato sia dalla sua esperienza biografica di viaggiatore che dai suoi interessi spirituali e culturali, i quali confluiscono nei testi nel tentativo di una sintesi.
Il secondo album del cantautore, Patriots (1980), prosegue nel solco del precedente e aggiunge un elemento nuovo, la canzone etico-politica. Scrivendo nel delicato periodo degli anni di piombo e delle stragi di stato, Battiato lascia trasparire l’indignazione e lancia un’invettiva a modo suo: “up patriots to arms| engagez-vous,” canta nel ritornello della title-track, misto di lingue straniere, per affermare subito dopo con effetto di détournement che “la musica contemporanea| mi butta giù”[5]. La commistione di immagini che vanno da Occidente a Oriente è ancora sistematicamente perseguita. Significativo, in questo senso, l’incipit di “Venezia-Istanbul”: “Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul” (con un procedimento di associazione istintivo e personale, ad allargare la prospettiva geografica e culturale). La canzone sfocia in una condanna della violenza, in tutte le sue determinazioni, storicamente mutevoli:
e penso a come cambia in fretta la morale
un tempo si uccidevano i cristiani
e poi questi ultimi con la scusa delle streghr ammazzavano i pagani.
Battiato si spinge, in questo disco, fino nei territori della Russia di inizio Novecento, nella canzone più famosa, “Prospettiva Nevskij” (nome della celebre via principale che attraversa San Pietroburgo). Il testo procede per evocazioni, attraverso istantanee slegate, e non per narrazione (tratto distintivo del cantautore): brevi sequenze accostate fra loro delineano scene di quotidianità in cui irrompono protagonisti notevoli, come la coppia Stravinski–Nijinski, nell’affresco di un’improbabile Russia.
Tommaso Labranca, intellettuale lombardo sui generis, dedica alcune pagine nel suo libro Chaltron Hescon (1998) proprio a questa canzone, osservandone la non-verosimiglianza e affermando che Battiato colleziona “cialtronescamente” una serie di luoghi comuni[6]. La critica è spietata ma intelligente: denunciando alcuni apparenti limiti della scrittura di Battiato, Labranca ne evidenzia un tratto stilistico. Quanto afferma può essere condivisibile: ma nei testi del cantautore la soppressione di legami logici e narrativi fra immagini o sequenze, la costruzione di un’atmosfera onirica destrutturata, le improbabili apparizioni di personaggi eccentrici costituiscono precisamente il suo stile, e soprattutto sono sorrette da un’intenzione precisa. Battiato ha spesso e lucidamente affermato di essersi addentrato nella musica leggera (anche) per comunicare a un pubblico vasto e suggerire spunti culturali insoliti. Come nel caso di Prospettiva Nevskij, dove il racconto si conclude col verso e il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire, in cui trapela la figura del filosofo e mistico Georges Ivanovič Gourdjeff – maestro di Battiato, attivo proprio nella San Pietroburgo di inizio secolo – e di un suo insegnamento.
Gourdjeff è un riferimento fondamentale per il cantautore, che tornerà altrove, come nel successivo La voce del padrone (1981), album che consacra Battiato diventando il primo, nella storia della canzone italiana, a superare il milione di copie vendute. Il brano in cui affiora, nuovamente, il pensatore armeno è “Centro di gravità permanente”, stavolta attraverso una citazione precisa. Nel ritornello, Battiato afferma di essere alla ricerca di una stabilità di giudizio, di un punto di vista saldo e consapevole sul mondo:
cerco un centro di gravità permanente
che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente.
(“Centro di gravità permanente” 1981)
Espressione e concetto provengono da Gourdjeff[7]. Nonostante l’apparente leggerezza e il disimpegno, la canzone è scritta con maestria: la melodia del ritornello alterna, inizialmente, due sole note – ad un intervallo di tono – producendo un effetto di provvisoria instabilità e incertezza. Inoltre, gli accenti dei versi (come altrove capita in Battiato: ma qui il fenomeno è particolarmente esteso, quasi sistematico) cadono su sillabe che normalmente non accettano, nella lingua italiana, un accento forte: per cui si sente Battiato cantare “bretoné, macedonì, véstiti, éntrare, dinàstia” e così via. Questi spostamenti inusuali d’accento concorrono allo sbilanciamento, all’instabilità della canzone (quasi fossero un sintomo linguistico che rimanda al tema fondamentale del brano).
La voce del padrone (1981) contiene altre sette tracce, che proseguono sui percorsi intrapresi da Battiato, e ne presagiscono di successivi. Il testo di “Summer on a solitary beach”, canzone d’esordio, si compone di alcuni ricordi d’adolescenza:
Passammo l’estate su una spiaggia solitaria
e l’eco ci arrivava di un cinema all’aperto
Ricordi calati in un’atmosfera mediterranea, quasi metafisica:
e nel pomeriggio quando il sole ci nutriva
di tanto in tanto un grido copriva le distanze
e l’aria delle cose diventava irreale
che sfociano in un desiderio d’evasione
mare mare mare voglio annegare
portami lontano a naufragare
via via via da queste sponde
portami lontano sulle onde.
(“Summer on a solitary beach,” 1981)
“Bandiera bianca” prosegue strizzando l’occhio a canzoni in voga (“Mister tamburino”di Dylan) e assume toni da critica dei costumi (“per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare| quei programmi demenziali con tribune elettorali”) e d’invettiva politica (“quante squallide figure che attraversano il paese| com’è misera la vita negli abusi di potere”). Nella canzone “Gli uccelli”, con uno slancio lirico, dalla contemplazione del volo scaturisce una riflessione sulle leggi che governano il mondo (“voli imprevedibili ed ascese velocissime| traiettorie impercettibili| codici di geometrie esistenziali”). In “Cuccurucucu” convergono nuovamente memorie adolescenziali (“le serenate all’istituto magistrale”), viaggi immaginari di popolazioni dell’est (“profughi afghani| che dal confine si spostano nell’Iran”), descrizioni sensuali, citazioni letterarie (“l’ira funesta […] cantami o diva”), citazioni pop (“le mille bolle blu”). “Segnali di vita” recupera elementi tematici delle canzoni precedenti (nei “segnali di vita nei cortili si riverbera l’eco del cinema all’aperto,” mentre le meccaniche celesti ricalcano i movimenti degli uccelli) e anticipa l’apertura cosmica di Mondi lontanissimi, album del 1985 (“lo spazio cosmico si sta ingrandendo| e le galassie si allontanano| ti accorgi di come vola bassa la mia mente”). “Sentimento nuevo” conclude l’album con leggerezza, fra sensualità ed erotismo evocati attraverso il consueto nomadismo geografico e culturale:
i desideri mitici di prostitute libiche
il senso del possesso che fu pre-alessandrino […] lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco
la lotta pornografica dei greci e dei latini
la tua pelle come un’oasi del deserto ancora mi cattura
ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo
è bellissimo perdersi in quest’incantesimo.
(“Sentimento nuevo”, 1985)
Gli album successivi, negli anni ’80, si confermano su buoni livelli. L’arca di Noè (1982) assume toni cupi e a tratti apocalittici, nonostante la celebre “Voglio vedertidanzare” concluda il disco, anche stavolta, con leggerezza. “Il titolo [dell’album] allude alla possibilità di mettersi in salvo per coloro che possiedono affinità elettive e si trovano a percorrere la stessa via per scampare al pericolo di un nuovo diluvio.”[8] Lo stile di Battiato è inconfondibile, la tecnica di scrittura rimane la stessa, come accade in “Radio Varsavia”:
e i commercianti punici
prendevano sentieri di montagna
per evitare i doganieri
ed arrivare in Abissinia,
(“Radio Varsavia,” 1982)
Vi è una novità “autoriale”: alcuni testi vengono scritti da Tommaso Tramonti, pseudonimo di Henri Thomasson, discepolo di Gourdjeff (che pubblicherà alcuni libri con la casa editrice L’Ottava, fondata dallo stesso Battiato).
Orizzonti perduti (1983) mantiene la tonalità oscura precedente, assumendo posizioni quasi decadenti (torneremo a vivere come dei barbari in “Tramonto occidentale”, titolo quanto mai significativo), che si stemperano a tratti in scene di quotidiana inerzia:
Le domeniche pomeriggio d’estate
zone depresse
donne sotto i pergolati a chiacchierare e a ripararsi un po’ dal sole
uomini seduti fuori dai caffè
(“Zone depresse”)
Battiato sembra in attesa di un evento, di una svolta, soprattutto esistenziale (“non servono più eccitanti o ideologie| ci vuole un’altra vita,” “Un’altra vita”). Non mancano i consueti ricordi d’infanzia (“mi regali ancora timide erezioni| guardavo di nascosto i saggi ginnici nel tuo collegio,” “Zone depresse”) e un brano di critica alla musica leggera (“e quanti cantanti musicisti arrabbiati| che farebbero meglio a smettere di fumare,” “La musica è stanca”)ma si riducono le escursioni in territori e culture esotiche. Una svolta avviene sul piano musicale, negli arrangiamenti: scompaiono chitarra, basso, batteria per lasciare spazio all’elettronica. La canzone più duratura è senz’altro “La stagione dell’amore”, una delle rare canzoni appunto d’amore del cantautore siciliano.
Con Mondi lontanissimi (1985) lo sguardo di Battiato si estende allo spazio. L’album menziona, trasversalmente, le nuove tecnologie e il loro influsso nella vita (“mi son comprato un personal computer| ma il cuore soffre un poco di aritmia”). Si segnalano “I treni di Tozeur”, presentata in coppia con Alice all’Eurovision song contest da un Battiato stranito e divertito, e “No time no space”. Quest’ultima è rappresentativa del disco intero, con il solito sovrapporsi di popoli ed epoche (“parlami dell’esistenza| di mondi lontanissimi| di civiltà sepolte| di continenti alla deriva”), stavolta declinato in chiave quasi fantascientifica (“seguimmo per istinto| le scie delle comete| come avanguardie| di un altro sistema solare”)[9].
Fisiognomica (1988) è l’album più coerente e convincente dai tempi di La voce del padrone. Battiato pone l’accento con decisione sul suo lato spirituale: e la sua intonazione apparentemente flebile, ripiegata su di sé, pare un riflesso esecutivo di tale raccoglimento. La title-track fa riferimento alla disciplina parascientifica, o arte divinatoria, che si propone di indovinare le qualità interiori di un individuo dai lineamenti del volto: il ritornello risolve un elenco di inclinazioni diverse, desunte dai tratti del viso e dai gesti, nella constatazione di una relativa insignificanza della vita singola e dell’impossibilità di conoscerne l’origine (“credimi siamo niente| dei miseri ruscelli senza fonte”). “E ti vengo a cercare” coniuga significativamente spiritualità e sensualità (“un rapimento mistico e sensuale| m’imprigiona a te| dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri| non accontentarmi di piccole gioie quotidiane| fare come l’eremita| che rinuncia a sé”): Battiato non è nuovo al tentativo di armonizzare gli opposti o di conciliare tensioni, e tradizioni, diverse[10]. Infine, nonostante il testo sia scritto dall’amico Juri Camisasca, la canzone “Nomadi” pare un manifesto del cantautore siciliano, nella sua rabdomante ricerca spirituale: fra i “nomadi che cercano gli angoli della tranquillità| nelle nebbie del nord e nei tumulti delle civiltà” scriveremmo anche il nome di Battiato.
I successivi due album sono difficili all’ascolto; tendenzialmente in linea con la produzione che precede, ma ancor più eterogenei. Come un cammello in una grondaia (1991) ha infatti un lato B di canzoni altrui, con Lieder tedeschi e una canzone francese elaborata dal compositore romantico Berlioz. Sul lato A, di inediti, spiccano la polemica “Povera patria” (“schiacciata dagli abusi di potere”), che ricorda per alcuni versi “Bandiera bianca” e delinea un presente tetro e volgare per l’Italia (“nel fango affonda lo stivale dei maiali”), nonché la delicatissima invocazione finale, “L’ombra della luce” (“Difendimi| dalle forze contrarie| la notte nel sonno quando non sono cosciente| quando il mio percorso si fa incerto| e non mi abbandonare mai| non mi abbandonare mai”).Il titolo del seguente Caffè de la paix (1993) fa riferimento, tanto per cambiare, a Gourdjeff, che nei suoi anni parigini era solito frequentare l’omonimo locale. Le canzoni del disco sono scritte interamente da Battiato, per l’ultima volta: da qui in poi il cantautore si limiterà a comporre le musiche, assegnando la scrittura dei testi al saggista e filosofo Manlio Sgalambro.
Sgalambro nasce a Lentini, in Sicilia, nel 1924; compie studi di giurisprudenza e scrive, per anni, su alcune riviste minori di filosofia. Solo nella maturità decide di organizzare il suo pensiero in un’opera sistematica, stendendo il manoscritto di La morte del sole, inviandolo poi alla casa editrice Adelphi. Il suo libro d’esordio esce nel 1982, dopo che il manoscritto rimane dimenticato, su qualche scrivania, per un paio d’anni: è il direttore dell’Adelphi, Roberto Calasso, ad interessarsi alla pubblicazione, dicendo a Sgalambro che “quel libro non era maturo, era marcio”[11]. Il giudizio, icastico, coglie nel segno: il siciliano dà vita nei suoi libri ad un nichilismo estremo; la sua visione esistenziale è drastica e fatale, lo stile deciso e spietato (simile, in ciò, al romeno Émil Cioran) pur mantenendo sempre uno spazio privilegiato per l’ironia.
La coppia Battiato-Sgalambro dà vita a tre album negli anni ’90: il primo banco di prova è L’ombrello e la macchina da cucire (1995). La scrittura di Sgalambro, pur conferendo un’impronta personale e definita ai testi delle canzoni, adotta in alcune occasioni metodi espressivi non nuovi a Battiato, e si fa carico di motivi e temi che il cantautore aveva già frequentato, per conto suo: “Moto browniano” – sintagma con cui nella fisica si designa il movimento casuale delle particelle, scoperto dal botanico scozzese Brown nell’Ottocento – mette in relazione asindetica materiali diversi e dispersi nello spazio (e nel tempo): “particelle di polline| pulviscolo londinese| un frammento della Sfinge.” Si manifestano comunque, nel disco, novità riconducibili alle riflessioni del filosofo, come nel brano “Breve invito a rinviare il suicidio”.
L’imboscata (1996) inizia con un frammento di Eraclito: Sgalambro stesso legge, nella canzone d’esordio “Di passaggio”, il filosofo greco: «Il vivo e il morto sono la medesima realtà, così come chi è sveglio e chi dorme, chi è giovane e chi è anziano: gli uni mutano negli altri, e di nuovo quegli altri mutano nei primi». Il discocontiene uno dei brani più notevoli, e conosciuti, della produzione di Battiato, “La cura”, un’anomala canzone d’amore il cui testo, stavolta, è firmato da entrambi i siciliani:
tesserò i tuoi capelli come trame di un canto
conosco le leggi del mondo e te ne farò dono
supererò le correnti gravitazionali| lo spazio e la luce per non farti invecchiare
ti salverò da ogni malinconia perché sei un essere speciale
ed io avrò cura di te.
(“La cura” 1996)
Gommalacca (1998) è una conferma, con alti e bassi, dell’insolita coppia Battiato-Sgalambro alla composizione e scrittura delle canzoni. Da qui in poi il cantautore siciliano – nei panni, nella fase conclusiva della sua carriera, del musicista-interprete – alternerà album realizzati ancora con Sgalambro (Ferro battuto 2001, Dieci stratagemmi 2004, Il vuoto 2007, Apriti sesamo 2012), raccolte di cover che variano dal cantautorato italiano alla chanson francese, passando per canzoni inglesi e americane (Fleurs 1999, Fleurs 3 2002, Fleurs 2 2008)[12], dischi compositi con vecchie canzoni riarrangiate e qualche inedito (Inneres Auge2009, Torneremo ancora 2019), e un’improvviso ritorno alla musica elettronica di inizio anni ’70 (Joe Patti’s experimental group 2014).
[1] Franco Battiato, intervista, 1998, online https://www.youtube.com/watch?v=2yaAbTMi7T8.
[2] E non solo, perché i due saranno autori per altri interpreti: curano gli arrangiamenti dello spettacolo di teatro-canzone del milanese Giorgio Gaber, Polli d’allevamento (1978, snodo importante nella carriera del cantautore milanese), scrivono canzoni e album interi per Giuni Russo, Alice (vincitrice del Festival di Sanremo 1981 con “Per Elisa” firmata dalla coppia Battiato-Pio) e Milva (celebre la sua versione di “Alexanderplatz”). Fra gli altri collaboratori dell’album L’era del cinghiale bianco vanno segnalati, almeno, Alberto Radius, chitarrista e proprietario dello studio di registrazione, e Tullio De Piscopo, batterista partenopeo dalle influenze jazz (i due lo accompagneranno nelle produzioni seguenti).
[3] «René Guénon ha scritto un libro intitolato Il re del mondo. Ma anche molti altri studiosi di religioni hanno il dubbio che il nostro pianeta sia governato da forze oscure. Il Re del Mondo è proprio questo: una forza che determina di nascosto le sorti del pianeta. Come un burattinaio invisibile che è causa del nostro dolore e che ci tiene prigioniero il cuore» (Franco Battiato, Tecnica mista su tappeto. Conversazioni autobiografiche con Franco Pulcini, EDT, Torino, 1992, 32).
[4] E parallelamente si può osservare come il “cut-up”, caratteristico di alcuni suoi testi, è senz’altro imparentato, sul piano musicale, con gli esperimenti fatti negli anni ’70, di collage sonori: vi è una continuità formale rilevante.
[5] Battiato dirà che il titolo dell’album proviene da un suo viaggio in Inghilterra, in cui per caso aveva notato un manifesto con la scritta Up Patriots to Arms: caso, non unico, in cui un dettaglio estemporaneo diventa fondamentale per una canzone o un disco.
[6] Tommaso Labranca, Chaltron Hescon, Einaudi, Torino, 1998, pp. 93-100.
[7] Con ogni probabilità dai Frammenti di un insegnamento sconosciuto redatti da P. D. Ouspensky, allievo di Gourdjeff e suo divulgatore, che Battiato afferma di aver letto sul finire degli anni ’70. Ecco uno dei due passi in cui si menziona il centro di gravità permanente, posseduto dall’uomo che riesce ad armonizzare i tre centri di gravità fondamentali secondo Gourdjeff (centro fisico, centro emotivo, centro intellettuale): «Come abbiamo già detto, gli uomini si attribuiscono un gran numero di qualità che in realtà possono appartenere solo a coloro che hanno raggiunto un grado di sviluppo e di evoluzione più elevato […] L’individualità, un ‘Io’ unico e permanente, la coscienza, la volontà, la capacità di fare, uno stato di libertà interiore sono tutte qualità che l’uomo ordinario non possiede. Altrettanto può dirsi dell’idea del bene e del male, la cui esistenza è legata a uno scopo permanente, a una direzione permanente e a un centro di gravità permanente» (Petr D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, Roma, 1976, p. 165).
[8] Battiato in Tecnica mista su tappeto cit. p. 47.
[9] Rappresentativo è pure il videoclip del brano, che condensa visualmente stilemi tipici di Battiato: il cantautore si presenta, vestito all’occidentale – in camicia e cravatta – munito di cuffie con microfono, per poi sedersi su un tappeto orientale, mentre attorno a lui si osservano suonatori di percussioni esotiche, un sintetizzatore, una piccola orchestra diretta da Giusto Pio. Durante il ritornello viene inquadrato uno schermo, alle spalle di Battiato, su cui viene proiettata la danza dei dervisci (citati nella canzone “Voglio vederti danzare”). Nel finale, Battiato si alza, indossa la giacca, e se ne va.
[10] Notevole la cover del brano da parte dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti), magistralmente arrangiata dal gruppo e cantata da Giovanni Lindo Ferretti, cantante che, come Battiato, ha fatto suo un certo ascetismo spirituale.
[11] Aneddoto e citazione sono raccontati da Sgalambro in “Manlio Sgalambro, l’ultima intervista,” Panorama, 6/3/2014, online https://www.panorama.it/cultura/sgalambro-ultima-intervista.
[12] Dedicati – si evince dal titolo – all’amica Fleur Jaeggy, poetessa di origini svizzere, moglie dell’editore di Adelphi, Roberto Calasso.