Di Massimo Lajolo (Studioso indipendente)
È difficile immaginare Angelo Branduardi (Cuggiono, 1950) come tipico cantante italiano di popular music, a partire dalla sua formazione, di tipo classico, che lo ha visto conseguire il diploma in violino presso il Conservatorio di Genova. Come è noto, il violino è uno strumento non così frequente nel pop o nel rock, soprattutto se suonato da un autore e interprete dei propri brani. Quando da giovane avvertì la necessità di esprimersi anche con voce e parole, Branduardi si avvicinò alla musica di grandi cantautori come Brassens, Donovan, Dylan, Cat Stevens e la Baez e cominciò a suonare anche la chitarra. In una intervista, ha dichiarato che questi due strumenti si completano, perché hanno opposte caratteristiche di genere: maschile il violino e femminile la chitarra. Nei dischi e nei live, negli anni, ha suonato molti altri strumenti: dulcimer, pianoforte, flauto dolce e di Pan, sax, armonica. Un polistrumentista a tutti gli effetti.
Per quanto riguarda i testi, Branduardi si è quasi sempre affidato all’ispirazione della moglie, Luisa Zappa, presenza schiva ma costante nella sua vita sentimentale e artistica. Altri parolieri hanno incrociato il suo percorso, fornendogli testi originali (come Pasquale Panella o Giorgio Faletti) o traduzioni per i dischi destinati all’estero (Pete Sinfield, paroliere di King Crimson e ELP, o Graham Nash): Branduardi, infatti, ha pubblicato versioni in varie lingue di numerosi suoi lavori: per esempio Highdown fair (1979, traduzione di Alla fiera dell’est) o Life is the only teacher (1986), versione inglese, ad opera di Sinfield, di Cogli la prima mela, dall’album omonimo:
“Opportunity is lost/ To those who sit weighing the cost/ Everything is there to reach for/ Life is the only teacher”. Nella maggior parte dei casi, le traduzioni non sono fedelissime all’originale, anche se ne mantengono temi e atmosfere; in certi casi, si tratta addirittura di testi diversi e autonomi.
Anche questo respiro internazionale dato alle sue produzioni, non certo riconducibile allo stile melodico, che per molti rappresenta il tipico prodotto di pop italiano, ha contribuito a fargli guadagnare un grande credito in molti paesi europei.
Tuttora “Il menestrello” effettua lunghe e fortunate tournée all’estero, ma le più famose sono state sicuramente quelle intraprese durante il suo periodo di maggior successo, ovvero il decennio a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, quando lo spettacolo La Carovana del Mediterraneo riempiva stadi e teatri, annoverando anche ospiti internazionali, come Richie Havens o Stephen Stills.
Alla fiera dell’est (1976), La pulce d’acqua (1977) e Cogli la prima mela (1979) sono i tre lavori di maggior spicco di questo periodo – e probabilmente di tutta la sua carriera – che sono serviti a definire e a rendere assai riconoscibile il suo stile. Più avanti, però, non sono mancati diversi altri pregevoli dischi e anche dei veri e propri gioielli, come Branduardi canta Yeats (1986), i cui testi sono appunto liriche del grande poeta irlandese, tradotte da Luisa Zappa e musicate da Branduardi. Quello con la poesia “alta”, del resto, è sempre stato un legame fortissimo, anche grazie agli stimoli ricevuti dal poeta Franco Fortini, suo insegnante alle superiori per un breve periodo: dai tentativi adolescenziali di musicare Dante e Neruda (spesso disastrosi, come ammette lui stesso) a Esenin, Garcia Lorca, Lorenzo il Magnifico, Saffo.
L’italiano da lui adoperato in alcune composizioni è sicuramente inconsueto per il mondo della canzonetta, con un lessico e un registro linguistico talvolta affini a quello della poesia, senza concessioni al gergo giovanile o a soluzioni alla moda: “O Pegaso, decrepito e bonario/ il tuo galoppo è ora senza scopo/ giunsi come un maestro solitario/ e non canto e non celebro che i topi/ Dalla mia testa come uva matura/ gocciola il folle vino delle chiome/ voglio essere una gialla velatura/ gonfia verso un paese senza nome” (Confessioni di un malandrino, traduzione da Esenin). Un carattere, questo, che lo avvicina ad altri protagonisti della canzone d’autore italiana, come Battiato o De Andrè, ma, a differenza di questi, non vi sono di solito prestiti linguistici da altri idiomi o dialetti, se si eccettua “Fou de love”, dove si mescolano parole di lingue diverse (dallo spagnolo al napoletano e al provenzale): “Tiranna mia/ tu non vivi per me/ I fou de love/ appriesse a tte/ Amor che a me me fas le feu, la glace, plaisir, dolor/ co ch’el vols”
Anche i temi trattati spesso si differenziano dalla produzione della maggior parte dei colleghi italiani, intanto, un grande amore per la natura, in particolare per gli animali, resi protagonisti di decine di canzoni, di solito a sfondo fiabesco: a volte, ispirate dalla tradizione orientale, a volte da quella di altre culture, come testimonia l’interesse dimostrato per le storie dei nativi americani, mirabilmente raccolti da Jaime de Angulo nei suoi Racconti indiani. Non si trovano, inoltre, concessioni al sentimentalismo autobiografico, tanto caro al mondo della canzonetta italiana, dove l’amore è spesso dipinto in modo banale e con toni pseudo-adolescenziali; anche la morte, argomento oggi considerato tabù, è presente nei suoi testi, quasi sempre contraddistinto da un delicato velo metaforico piuttosto che da un realismo diretto. Notevoli le suggestioni provenienti dal genere della favola (“L’uomo e la nuvola”, “Gulliver”, sua versione di un brano di Alan Stivell), della danza e del suo valore simbolico (“Ballo in Fa diesis minore”, dove il tema tradizionale di “Schiarazula Marazula” si presta a evocare uno scenario medievale da danza macabra), nonché i riferimenti a personaggi appartenenti ad altre epoche e contesti (“Casanova”, “1° Aprile ’65”, tratto dall’ultima lettera di Che Guevara al padre).
Altrettanto varie sono le fonti musicali: su una matrice, essenzialmente folk si sono poi innestati elementi etnici, reggae, latini, pop, elettronici, rock, a rendere la sua musica un caleidoscopio estremamente vario, sempre arrangiato con classe e suonato da musicisti italiani e stranieri di primissimo livello. Un variopinto campionario comprendente spesso rielaborazioni di temi popolari o di autori anonimi: il suo più grande successo, Alla fiera dell’est, si basa su un tema e un testo di origine ebraica, “Cogli la prima mela” riprende una antica melodia ungherese, brani come “Il ciliegio”, “Gli alberi sono alti”, “Piano piano”, di matrice anglosassone, sono riprese della straordinaria raccolta, curata da F. J. Child, The English and Scottish Popular Ballads.
Quello di Branduardi è quindi un percorso decisamente personale: nessuna concessione alla canzonetta pop o alle sue vetrine più patinate, come il Festival della canzone italiana di Sanremo, lontananza dai temi politici quando questi erano ampiamente trattati da molti colleghi, nessun legame particolare con le cosiddette “scuole di cantautori” (di Genova, Milano, Roma), un profilo artistico umano e artistico di livello, che con alti e bassi, mantiene dal 1974, anno del suo debutto discografico.
Oltre alla forma canzone, Branduardi ha spaziato in altre direzioni, parallele e complementari: colonne sonore di film, come State buoni se potete, di Luigi Magni, o Momo, tratto dal romanzo di Michael Ende, e un lungo ciclo di dischi (Futuro antico, vol. I-VIII, pubblicati tra il 1996 e il 2014) realizzati insieme a vari ensemble strumentali, con un repertorio comprendente brani del repertorio sacro e profano dal Medioevo al Settecento. Inoltre, ha realizzato L’infinitamente piccolo (2007), disco ispirato alla figura di San Francesco, poi divenuto spettacolo teatrale-musicale con il titolo di La lauda di Francesco.
SITO UFFICIALE DI BRANDUARDI