Alla fine della baldoria c’era nell’aria un silenzio strano:
qualcuno ragliava con meno boria e qualcun altro grugniva piano.
Alle sfilate degli stilisti si trasgrediva con meno allegria
ed in quei visi sazi e stravisti pulsava un’ombra di malattia.
Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva
e fra biscotti sponsorizzati vidi un anchorman che piangeva,
e poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta,
ci risvegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa…
Il Mercoledì delle Ceneri ci confessarono bene o male
che la festa era ormai finita, e ormai lontano il Carnevale.
E proclamarono penitenza e in giro andarono col cilicio
ruttando austeri: “Ci vuol pazienza, siempre adelante, ma con juicio”.
E fecero voti con faccia scaltra a Nostra Signora dell’Ipocrisia
perché una mano lavasse l’altra, tutti colpevoli e così sia!
E minacciosi ed un po’ pregando, incenso sparsero al loro Dio,
sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io…
La domenica di mezza Quaresima fu processione di etère di stato:
dai puttanieri a diversi pollici, dai furbi del “chi ha dato ha dato”.
Ed echeggiarono tutte le sere come rintocchi schioccanti a morto:
Amen, Mea Culpa e Miserere, ma neanche un cane che sia risorto!
E i cavalieri di tigri a ore e i trombettieri senza ritegno
inamidarono un nuovo pudore, misero a lucido un nuovo sdegno…
Si andò alle prime con casto lusso e i quiz pagarono sobri milioni
e in pubblico si linciò il riflusso per farci ridiventare buoni…
Così domenica dopo domenica fu una stagione davvero cupa:
quel lungo mese della Quaresima rise la iena, ululò la lupa,
stelle comete ed altri prodigi facilitarono le conversioni,
mulini bianchi tornaron grigi, candidi agnelli certi ex leoni.
Soltanto i pochi che si incazzarono dissero che era l’usato passo
fatto dai soliti che ci marciavano per poi rimetterlo sempre là in basso.
Poi tutto tacque, vinse ragione, si placò il cielo, si posò il mare,
solo qualcuno in resurrezione, piano, in silenzio, tornò a pensare
Our Lady of Hypocrisy
Translated by:
Cristina Perissinotto
At the end of the revelry a strange silence hung in the air
someone brayed with less arrogance someone else grunted softly.
At fashion shows less cheerful were the transgressions
and in those faces, bloated and overexposed a shadow of disease pulsed.
An artisan of forced scoops wrote that Weimar was already there
and among the sponsored biscotti they saw a weeping anchorman.
Then fog descended in banks and the barometer forecast a storm
we woke up older and more tired with a bitter aftertaste, and a splitting headache.
On Ash Wednesday they proclaimed, for better or worse
that the party was now over and the Carnival long gone.
They proclaimed penance they went around wearing a cilice
burping austerely: we need patience always ahead, but with prudence.
With their sly faces they made vows to Our lady of Hypocrisy
so that one hand could wash the other all equally guilty, and amen.
And partly menacing and partly praying they burned incense to their God
always accusing, always seeking “the one responsible, certainly not me”
On the Sunday of Mid-Lent they held a procession of state hetaer
as of televised pimps, of experts of “what’s done is done.”
Every night brought echoes like the tolling of mourning bells
of their Amen, Mea Culpa and Miserere of but not a dog ever resurrected!
And the tiger-riders, the unrestrained trumpeters
They polished up a new modesty, they shone up a new disdain,
opening nights showed chaste luxury, quiz shows paid sober millions
and in public we condemned political apathy so we could all be good again.
This way, Sunday after Sunday it was a truly bleak season,
in that long month of Lent the hyena laughed
the she-wolf howled. Comets stars and other prodigies
facilitated the conversions white mills went back to grey
some ex-lions became white lambs.
Only the few that got enraged said that these were the typical steps
taken by the usual suspects to fool people, as usual.
Then everything quieted, reason won; the tempest died down, the sea settled.
Just a few, in resurrection, slowly, quietly, went back to thinking…
Nato a Modena nel 1940, Francesco Guccini è uno dei cantautori italiani più conosciuti. La sua carriera abbraccia circa 50 anni, durante i quali ha registrato 16 album originali e si è esibito in innumerevoli concerti. Sebbene non si esibisca più, la sua voce caratteristica e le celebri ballate lo rendono uno dei cantanti folk più iconici della sua generazione. Nel 2001, Guccini si è trasferito da Bologna a Pàvana, il suo villaggio ancestrale sugli Appennini, dove, tra il 2011 e il 2012, ha trasferito i suoi musicisti e un intero studio di registrazione per incidere il suo ultimo album (Ultima Thule) e girare un documentario su questo sforzo (La mia Thule). Nello stesso anno, sempre a Pàvana, annunciò che non avrebbe più fatto concerti e album, e si ritirò dalla scena musicale.
La vita va avanti e l’imponente cantautore concentra ora la sua ispirazione artistica sulla scrittura di romanzi gialli (con Loriano Macchiavelli) e raccolte autobiografiche. Prima di ritirarsi dalle scene aveva già scritto un’importante trilogia autobiografica: Cròniche epafàniche (1991), Vacca d’un cane (1993) e Cittanòva blues (2003). In questi libri, usa un idioletto che colloca la lingua italiana nel contesto di diversi paesaggi sonori dialettali, a seconda di dove sono ambientati i libri. Cròniche epafàniche, dedicata alla sua infanzia in Appennino, ha conquistato i lettori per la facilità narrativa e il forte immaginario, determinato dalle sue originali scelte linguistiche. Ad esempio, in un brano dedicato al suo passatempo d’infanzia, la pesca nel torrente locale, scrive:
è più facile prenderli, i pesci, con le mani, quando il gorello dello sfioratore del botàccio va in secca, e nelle pozétte qualche pesce rimane: una volta, quando c’era più pesci, usavano anche le nasse di stroppe che ora sono rinsecchite e inerti nel Maganzino. (17)
L’importanza di Guccini come cantautore nella storia della musica italiana non può essere sopravvalutata. Le sue ballate mescolano etica e poetica, satira e indignazione, passato e presente.
Anche chi non ha familiarità con il suo vasto corpus di opere si è imbattuto in alcune delle prime canzoni di Guccini, come “Dio è morto” (Folk Beat n. 1, 1967), ispirato nel titolo a Così parlò Zarathustra di Nietzsche e nel testi di “Howl” di Allen Ginsberg:
Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente cercare il sogno che conduce alla pazzia alla ricerca di qualcosa che non si trovano
Un’altra delle sue famose ballate è “Auschwitz”, nota anche come “La canzone del bambino nel vento”, scritta dopo aver letto un libro autobiografico di Vincenzo Pappalettera intitolato Tu passerai per il camino:
Son morto che ero bambino sono morto con altri cento. Passato per il camino e adesso sono nel vento.
Guccini è l’autore de “L’Avvelenata” (Via Paolo Fabbri, 43, pubblicato nel 1976) uno dei brani più scurrili della storia della musica cantautorale italiana. Costituisce un potente atto di indignazione, costellato di parolacce. Se all’inizio sembrava scandaloso, in seguito è diventato un simbolo dell’intensità delle proteste personali che hanno caratterizzato gli anni ’70.
Guccini ha sempre affermato di essere più anarchico che comunista. “La locomotiva” (Radici, 1972), con cui concludeva tutti i concerti, è una delle sue canzoni distintive. Si tratta di una lunga ballata anarchica su un ingegnere ferroviario, Pietro Rigosi, che, alla fine dell’Ottocento, cercò di scagliare una locomotiva contro un treno passeggeri, per protestare contro le difficili condizioni di vita dell’epoca.
Nel suo canzoniere Francesco Guccini invia un forte messaggio etico, poetico, politicamente impegnato e spesso satirico. Per tutti questi motivi, Dario Fo una volta lo chiamò “la voce del movimento”. Le influenze sulla sua musica e sui suoi testi sono Jacques Brel e Georges Brassens, Bob Dylan e Paul Simon, così come Édit Piaf.
Per quanto riguarda la sua iconografia, era famoso per esibirsi con una bottiglia di vino sotto la sedia. “Al rosso saggio chiedi i tuoi perché”, scrive in “Un altro giorno è andato” (Un altro giorno è andato / Il bello, 1968). Nelle sue liriche il vino è compagno di molte notti; il “saggio rosso” che menziona in quella canzone è infatti una metafora del vino rosso.
Francesco Guccini è probabilmente l’unico cantautore che ha fatto del proprio indirizzo privato il titolo di un suo album. Via Paolo Fabbri, 43, a Bologna, è diventato un pellegrinaggio necessario per chi ammira la produzione poetica e musicale del cantautore.
La sua poesia è ispirata dalla sua vasta conoscenza letteraria, che traspare in innumerevoli riferimenti, da Carlo Collodi ad Alessandro Manzoni, da Jack Kerouac a John Dos Passos, da Guido Gozzano a Carl Barks. La profondità e il valore letterario del suo corpus di opere gli sono valsi un gran numero di riconoscimenti, tra cui, nel 1992, il prestigioso Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale per la sezione “versi in musica”.
Gozzano in particolare è stato molto influente per i testi più intimi di Guccini. L’autore, infatti, è debitore al crepuscolarismo sia nelle sue atmosfere che nelle scelte stilistiche. Ad esempio, la famosa canzone “Incontro”, (Radici, 1972) che descrive una cena, dopo tanti anni, con una compagna di liceo, Guccini menziona che le posate avevano il colore della nostalgia (stoviglie color nostalgia). Si può sentire, in questa canzone romantica e nostalgica, un riferimento alla lunga poesia di Gozzano “Signorina Felicita”, (I colloqui, 1911) in particolare un riferimento agli occhi di Felicita, descritti da Gozzano come posate-blu (“azzurri di un azzurro di stoviglia”). Il prestito più evidente da Guido Gozzano è, tuttavia, l’adattamento di Guccini di “La più bella”, una poesia che Guccini ha musicato con il titolo “L’isola non trovata“.
In una recente intervista (per il talk show di Diego Bianchi, Propaganda live) Guccini lamenta la scomparsa di chi popolava le “sue” montagne, e quindi l’annacquamento di quella particolare cultura, e delle sue stesse radici. La ricerca delle proprie radici è uno dei temi principali del suo canzoniere, in particolare nel suo album del 1972, Radici. La canzone che ha dedicato a suo zio Amerigo, emigrato negli Stati Uniti e tornato a Pàvana solo da vecchio, esemplifica la sua attenzione per la storia della sua famiglia.
Il tema di Pàvana come locus amoenus dove vengono risolte molte delle contraddizioni della vita è uno dei temi più duraturi dei suoi testi. Il suo ultimo album, Ultima Thule (2012), registrato all’interno del mulino che appartiene alla sua famiglia da diverse generazioni, è pieno di ricordi d’infanzia, incluso il suono della ruota del mulino che continuava a macinare giorno e notte quando era bambino.
Un altro tema importante nelle produzioni di Guccini è il tempo. Nella canzone che presta il titolo al suo ultimo album, “Ultima Thule”, si lamenta del passare del tempo, che ha posto fine alle scappatelle di predoni con i suoi più cari amici musicisti:
Io che tornavo fiero ad ogni porto dopo una lotta, dopo un arrembaggio, non son più quello e non ho più il coraggio di veleggiare su un vascello morto.
Dov’è la ciurma che mi accompagnava e assecondava ogni ribalderia? Dove la forza che ci circondava? Ora si è spenta ormai, sparita via.
(“Ultima Thule”, Ultima Thule, 2012)
Non dovremmo preoccuparci di questa malinconica ultima canzone. Il buen retiro di Guccini in Appennino è meta di appassionati e studiosi. Non sembra nemmeno preoccuparsi delle frequenti interruzioni o del suo status leggendario tra i suoi ammiratori. Nella speranza di incontrarlo un giorno a Pàvana, attendiamo con ansia il suo prossimo romanzo giallo.
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