Senza fine

Gino Paoli, 1961

Senza fine,
tu trascini la nostra vita,
senza un attimo di respiro
per sognare,
per potere ricordare
quel che abbiamo già vissuto…

Senza fine,
tu sei un attimo senza fine,
non hai ieri,
non hai domani,
tutto è ormai nelle tue mani,
mani grandi,
mani senza fine.

Non m’importa della luna,
non m’importa delle stelle,
tu per me sei luna e stelle,
tu per me sei sole e cielo,
tu per me sei tutto quanto,
tutto quanto voglio avere.

Senza fine,
tu sei un attimo senza fine,
non hai ieri,
non hai domani,
tutto è ormai nelle tue mani,
mani grandi,
mani senza fine.

Non m’importa della luna,
non m’importa delle stelle,
tu per me sei luna e stelle,
tu per me sei sole e cielo,
tu per me sei tutto quanto,
tutto quanto voglio avere.

Senza fine…

Endless

Translated by: Francesco Ciabattoni

Endlessly
you drag our life
without a moment’s reprieve
to dream
to be able to recall
what we’ve already lived.

Endless
you are an endless moment
you have no yesterday,
no tomorrow
all is now within your hands
great hands
hands without end.

I don’t care about the moon
I don’t care about the stars
you are to me the moon and stars
you are to me the sun and sky
you are everything to me
everything I want to have.

Endless
you are an endless moment
you have no yesterday,
no tomorrow
all is now within your hands
great hands
hands without end.

I don’t care about the moon
I don’t care about the stars
you are to me the moon and stars
you are to me the sun and sky
you are everything to me
everything I want to have.

Endless…

Di Simone Marchesi, Princeton University.

Ci sono due ordini di osservazioni che si possono fare su questa canzone notevole e notevolmente popolare. La prima riguarda l’omogeneità e la coerenza del suo testo con quello di un’altra canzone composta da Paoli nello stesso periodo, “Il cielo in una stanza” (1960). Il secondo ha a che fare con la coerenza intratestuale di diversi elementi disseminati nella canzone stessa.

Prima di tutto, ecco un confronto intertestuale con “Il cielo in una stanza”. Entrambe le canzoni apparentemente trattano situazioni romantiche standard: lo stato di sogno in cui entrano gli amanti quando sono insieme e la qualità assoluta e totalizzante della passione erotica. Tuttavia, un elemento che lega “Il cielo in una stanza” e “Senza fine” al di là della loro prossimità tematica è l’impiego di espressioni “vaghe e indefinite” per caratterizzare le varie situazioni in questione. Ne “Il cielo in una stanza”, gli alberi che sostituiscono le pareti della stanza degli amanti sono programmaticamente infiniti; il suo soffitto è sostituito da un cielo immenso; il suono di un’armonica si dilata per assomigliare a quello di un organo; il mondo è ridotto al nulla. Lo stesso insieme di nozioni costella “Senza fine”: l’infinità del titolo è immediatamente accoppiata all’istantaneità, in un’equivalenza micro/macro che raddoppia la configurazione tutto-e-nulla del nulla e del mondo nella canzone precedente. Allo stesso modo, un insieme di corpi astrali -luna, stelle, sole e cielo- è scartato in favore dell’unico e solo (infinito) oggetto del desiderio: il tu dedicatario della canzone. Nella tradizione lirica italiana, tale focalizzazione non è una scelta nuova né neutra. Giacomo Leopardi, in una pagina del 1819 del suo Zibaldone, praticamente coeva del celebre “L’Infinito”, discute la qualità intrinsecamente poetica di tali espressioni, volte a recuperare, per quanto possibile in una coscienza adulta, e replicare, sempre per quanto possibile nel linguaggio adulto della sensibilità, l’esperienza naturalmente poetica della realtà che caratterizza l’infanzia del soggetto.

La canzone è anche particolarmente interessante per la sua struttura più profonda come meccanismo calendariale. L’attenzione al tempo è, ovviamente, tanto immediata quanto prominente nel testo. La prima strofa stabilisce che chiunque (o qualunque cosa) sia il “tu” della canzone, esso è responsabile del movimento travolgente e senza respiro della nostra vita, un movimento che si misura in termini psicologici, attraverso i sogni del futuro e i ricordi del proprio passato, così come in termini cronologici: non c’è ieri, né domani, solo un istante infinito. Se la canzone è vaga e indefinita nel modo in cui tratta il tempo istantaneo e sempre presente dell’esperienza che racconta, la strofa finale è invece estremamente precisa nella rinuncia a specifici oggetti che non sono semplicemente celesti, ma più chiaramente indicatori di tempo. La prima struttura diadica oppone semplicemente notte e giorno, contrapponendo la luna al sole e il cielo notturno completamente stellato al cielo vuoto del giorno. Ma forse c’è di più. Luna e stelle, sole e cielo sono ciascuno responsabile di un modo in cui l’uomo misura il tempo. I modelli ciclici del sole ci danno la misura del giorno, quelli della luna controllano i mesi, quelli delle stelle (cioè delle costellazioni) segnano la progressione dell’anno. Nell’ambientazione immaginaria della canzone, il cielo è vuoto e non segnato, ma anch’esso può essere visto in una connessione stretta, anche se non immediatamente evidente, con il tempo. Il Primo mobile, un cielo vuoto che si estende oltre le sette sfere planetarie e la sfera delle stelle fisse, è in realtà un elemento fondamentale delle concezioni aristoteliche e pre-copernicane dell’universo, in cui il Paradiso di Dante individua specificamente l’origine del Tempo. In Paradiso XXVII.115-118, Dante dice del Primo mobile che “Non è suo moto per altro distinto, / ma li altri son mensurati da questo” ee che, in una metafora suggestiva, quel cielo è il vaso in cui il tempo affonda le radici (“e come il tempo tegna in cotal testo / le sue radici e ne li altri le fronde”).