Piero Ciampi, nato a Livorno il 28 settembre 1934 in una famiglia modesta, figlio di un commerciante di pellami, è oggi ricordato come una figura unica nel panorama musicale italiano: un poeta, un ribelle, un’anima leggera e tormentata. La sua vita, intensa e a tratti drammatica, lo ha portato a diventare un’icona, celebrata dal 1995 con il premio Ciampi-Città di Livorno, dedicato a canzoni inedite.
Fin da giovane, Piero mostrò un grande interesse per la musica, iniziando a suonare il contrabbasso. Tuttavia, la sua strada non fu lineare: iniziò a studiare ingegneria, ma abbandonò presto l’università per seguire la sua vera vocazione artistica. La musica, e tutto ciò che essa rappresentava, divenne il suo mondo. Un momento cruciale della sua vita arrivò durante il servizio militare a Pesaro, dove conobbe il compositore Gianfranco Reverberi, che riconobbe in lui un talento puro e lo aiutò a orientarsi nel complesso universo della musica. Poco dopo, Ciampi decise di partire per Parigi, con poche cose ma grandi speranze. La Parigi degli anni ’50 e ’60 era il cuore pulsante dell’arte e della cultura, e qui Ciampi ebbe modo di incontrare personalità come lo scrittore Louis-Ferdinand Céline, e si lasciò ispirare dalle canzoni di Georges Brassens. Nei cabaret parigini tentò la strada del cantante intimista, presentandosi al pubblico come “Piero l’italiano”, come recita il titolo del suo primo album (ma senza apostrofo: Piero Litaliano, 1963). Tuttavia, il riconoscimento del pubblico non arrivò mai davvero, e il giovane cantautore dovette fare i conti con le difficoltà di una vita da artista in cerca di affermazione. Tornato in Italia, riuscì a firmare con una casa discografica, ma nonostante i contratti e i dischi pubblicati, il grande successo commerciale gli sfuggì sempre. Ciampi rimase un artista di nicchia, apprezzato da chi sapeva cogliere la profondità delle sue parole e l’intensità delle sue interpretazioni. Le sue canzoni, spesso costruite come monologhi, confessioni intime e elucubrazioni impregnate di esistenzialismo esplorano tematiche di disillusione, solitudine e amarezza. Ciampi fu un narratore dei sentimenti più tormentati, specialmente quelli legati ai rapporti umani, come dimostra il brano “Te lo faccio vedere chi sono io”, da Io e te abbiamo perso la bussola (1973).
E che sono quei cenci che hai addosso?
Ma che è, ma fammi capire…
Ma senti, ma io, ma come!
Tu sei, sei la mia…
e stiamo in questa stamberga coi cenci addosso!
Ma io adesso esco, sai che cosa faccio?
Ma io ti porto, una pelliccia, di leone,
con l’innesto di una tigre.
Te lo faccio vedere chi sono io!
Senti, intanto però c’è un problema:
siccome devo uscire,
mi puoi dare mille lire per il tassì,
in modo che arrivo più in fretta
a risolvere questo problema volgare che abbiamo?
Te lo faccio vedere chi sono io […]
Come già detto, il grande pubblico del periodo, desideroso di canzoni più leggere e sentimentali, non accolse con entusiasmo il suo stile crudo e diretto. Nonostante ciò, Ciampi riuscì a sorprendere con brani come “Va” (Dentro e fuori, RCA Italiana, TCL2 1184, 1976), in cui l’amore è totale:
Io tra miliardi di sguardi
che si inseguono in terra
ho scelto proprio il tuo
e ora tra miliardi di vite
mi divido con te
A più di quattro decenni dalla sua scomparsa, Piero Ciampi è celebrato come uno dei più grandi cantautori italiani, accanto a giganti come De André, Guccini, Gaber e Lolli. Ciò che lo rende unico non è solo la sua abilità nel trattare temi esistenziali con profondità e ironia, ma anche la sua capacità di trasformare ogni parola in musica. Nei suoi versi c’è una musicalità innata, qualcosa che va oltre il semplice accompagnamento sonoro e si avvicina a una forma di poesia in cui la melodia e il testo si fondono in un tutt’uno armonico.
Ciampi non si limita a raccontare storie o emozioni, ma crea un legame misterioso e profondo tra il visibile e l’invisibile, tra gli oggetti quotidiani e le emozioni umane, evocando quell’idea delle correspondances di Charles Baudelaire. Come il poeta francese, anche Ciampi sembra percepire il mondo come un insieme di simboli nascosti, dove ogni elemento del paesaggio esteriore riflette un movimento dell’anima. La pioggia, la polvere, il silenzio, le stazioni ferroviarie: questi non sono semplici dettagli nei suoi testi, ma diventano veri e propri specchi dei sentimenti umani, capaci di riflettere una solitudine esistenziale profonda e una continua ricerca di significato. Le sue canzoni, in questo senso, sono veri e propri dialoghi tra l’interiorità dell’uomo e il mondo esterno, risonanze che fanno emergere una sorta di malinconia cosmica, dove l’uomo appare come un viaggiatore solitario, perso tra le strade della vita. Come Baudelaire, Ciampi riesce a tessere un universo poetico in cui il mondo materiale diventa un riflesso del malessere umano, e le sue canzoni si trasformano in corrispondenze tra l’uomo e il suo destino, tra l’anima e la realtà che lo circonda. Maurizio Cucchi, poeta milanese, ha saputo cogliere questa complessità nelle opere di Ciampi. Nel 1985 scrisse:
Ho sempre pensato che ciò che conta è l’opera e che le vite affogano, che piaccia o meno, troppo spesso con pena, nell’effimero e nel privato. Ma per Ciampi il caso è diverso: come chi infine non distingue più la realtà dal sogno e ne mescola le immagini, così io lo vedo quasi aver cancellato i confini tra il cantare e lo scrivere e gli affanni e gli incidenti di un’esistenza intensa, continuamente risucchiata, smagrita[1]
Le canzoni e le poesie di Piero Ciampi possiedono una qualità profondamente umana e spontanea, quasi come se fossero appunti scritti su un foglietto volante, destinati a perdersi nel vento. Ogni verso, ogni gesto creativo sembra sfuggire alla logica del perfezionismo professionale, eppure riesce a raggiungere una compiutezza secca e stringente, simile a un microdramma in versi. Ciampi ferisce perché egli stesso si sente ferito; il suo riso è intriso di un fatalismo amaro, un riso che appartiene solo a chi sa vedere il mondo con gli occhi di un poeta. La sua figura si muove in bilico tra l’afflizione e la leggerezza, tra l’angoscia e una delicatezza struggente. Piero Ciampi è un combattente eroicamente disarmato, qualcuno che si batte senza difese, ma con una forza d’animo che lo rende unico. È un poeta non solo per la sua capacità di sondare le profondità più oscure della percezione e della memoria, ma anche per come sa cantare la sua Livorno, città che lo ha forgiato e che risuona in ogni sua nota, in ogni suo verso. Nei suoi testi, emerge una descrizione tagliente e originale del suo disagio esistenziale: un disagio che si riflette nei luoghi dimenticati della mente, nei momenti di solitudine, nei frammenti di vita che sembrano sospesi tra il ricordo e l’oblio.
Io non posso più andare
tra i sorrisi della gente
né chiedere alle cose un posto in mezzo a loro
(“L’ultima volta che la vidi”, L’ultima volta che la vidi/Quando il voto si leva [come Piero Litaliano], 1961, Bluebell, BB 03056)
O ancora:
Col viso tra le mani
come una volta
sono solo con la pioggia
che bagna le mie lacrime.
(“La polvere si alza” Piero Litaliano [come Piero Litaliano], 1963, CGD, FG 5007)
Piero Ciampi si rivela inoltre un acuto osservatore delle trasformazioni sociali dell’Italia del suo tempo. Riesce a catturare l’essenza di un’Italia in pieno cambiamento, con le sue contraddizioni e le sue corse verso una modernità che spesso lascia indietro le persone più fragili. “Andare, camminare, lavorare” (1975) è uno dei brani più sarcastici e taglienti di Piero Ciampi, una sorta di manifesto contro la monotonia e l’alienazione della vita moderna. In questa canzone, Ciampi descrive con amara ironia la routine quotidiana che imprigiona l’essere umano, ridotto a un ingranaggio di un meccanismo più grande, senza via di scampo. Con un linguaggio semplice ma estremamente efficace, Piero tratteggia l’immagine di un’Italia in trasformazione, dove tutti sembrano inseguire lo stesso sogno di progresso, rappresentato simbolicamente dall’automobile: “La Penisola in automobile, tutti in automobile al matrimonio”. Il ritornello ripetitivo, con quelle tre azioni—andare, camminare, lavorare—diventa una sorta di mantra grottesco che riassume il ciclo infinito di una vita fatta di spostamenti e fatica, senza mai un vero scopo. Ciampi osserva con disincanto l’Italia risultata dal boom economico, smascherando l’ipocrisia e la vuota corsa verso un successo che spesso non ha significato. La sua voce, come sempre, è graffiante, quasi irritata, come se fosse stanca di vedere tutti partecipare a questa commedia assurda senza mai metterla in discussione. Piero Ciampi non si limita a criticare, ma mette in scena una riflessione profonda sulla condizione umana e sull’incapacità di sfuggire alle dinamiche sociali che ci imprigionano. “Andare, camminare, lavorare” non è solo una canzone, ma un grido ironico contro la perdita di autenticità, una denuncia della vita moderna che sembra soffocare ogni slancio vitale:
Nutriamo il lavoro, alé!
Gli agnelli a pascolare con le capre
fra i nitriti dei cavalli
Ciampi gioca abilmente con il linguaggio, creando un’immagine che, oltre alla sua connotazione pastorale e grottesca, nasconde (neanche troppo bene) un riferimento sottile e critico alla famiglia Agnelli, simbolo del potere economico e industriale dell’Italia del tempo. L’uso della parola “agnelli” non appare casuale: richiama infatti la figura dominante dell’avvocato Gianni Agnelli e la sua famiglia, proprietaria della Fiat e emblema del capitalismo italiano. Gli “agnelli” e le “capre” che pascolano insieme evocano un’immagine ironica della massa lavoratrice, guidata come un gregge verso un destino imposto dalle élite, con i cavalli – simbolo di forza e potere – che nitriscono in sottofondo, vigilati dai pastori, metafora del controllo sociale.
Ciampi, con il suo stile caustico, denuncia la subordinazione delle classi lavoratrici al volere dei grandi industriali, disegnando una scena in cui il lavoro non è altro che una forma di sfruttamento mascherata da normalità. Il richiamo agli “azzurri, azzurri, attaccare attaccare”, un’eco forse delle frasi di incoraggiamento tipiche del mondo sportivo e/o militare, si trasforma qui in un cinico invito a proseguire ciecamente, senza paura, come se la lotta per la sopravvivenza fosse parte del gioco sociale. Il sarcasmo di Ciampi esplode poi nel richiamo all’attività frenetica e senza senso: “attaccatevi a calci nel sedere”, un’espressione che demolisce l’apparente dinamismo della vita moderna, riducendolo a una corsa ridicola verso il nulla. La visione di una domenica trascorsa sul Pordoi —il valico alpino delle Dolomiti — a “pedalare” diventa l’emblema dell’alienazione collettiva, dove persino il tempo libero viene consumato in uno sforzo inutile e ripetitivo, mentre il lavoro, il pedalare e il fare festa si mescolano in un ciclo senza fine. Con una pungente ironia, Ciampi chiude la stanza con “tanti tanti tanti tanti auguri agli sposi!”, un augurio che suona quasi vuoto, ripetuto meccanicamente come un rituale sociale che ha perso il suo vero significato. Questo finale accentua il contrasto tra le aspettative della vita ordinaria e la cruda realtà di un’esistenza che appare sempre più come un teatro dell’assurdo, dove i ruoli sono assegnati e gli individui sono intrappolati in un copione prestabilito.
“La Penisola al volante, questa bella penisola è diventata un volante” sintetizza con amara ironia la trasformazione dell’Italia da paese rurale a paese industrializzato e dominato dalla modernità, simboleggiata dall’automobile: siamo alla fine del boom economico e i tratti della “bella penisola” sembrano radicalmente cambiati. La “bella penisola”, un riferimento affettuoso e quasi nostalgico all’Italia, diventa qui ridotta a un semplice “volante”, un simbolo del progresso tecnologico che però sottrae bellezza, autenticità e umanità al paese. Il rapido sviluppo economico e industriale ha ridotto la nazione a una mera macchina in movimento, in cui l’identità culturale e i valori tradizionali vengono sopraffatti dalla corsa al consumismo e all’efficienza. Il “volante” infatti rappresenta il controllo meccanico che ha preso il sopravvento sulla vita delle persone, rendendole schiave di una logica di velocità e produttività. In questo senso, l’immagine della Penisola trasformata in un volante è una metafora potente dell’alienazione moderna: l’Italia non è più un luogo di poesia e bellezza naturale, ma una terra guidata dalla frenesia del movimento senza fine, dove “andare, camminare, lavorare” diventa un mantra ripetuto all’infinito, privo di significato e scopo reale. Il verso critica l’illusione del progresso, rivelando il vuoto che si cela dietro l’apparente benessere economico.
Il suo stile di vita anticonformista e la sua attitudine ribelle lo relegano ai margini della scena musicale mainstream, incapace di adattarsi ai meccanismi del successo commerciale. Ostile alla fama e ai compromessi che questa richiede, Ciampi si condanna a un’esistenza di povertà e ostracismo artistico. Eppure, questa scelta di restare fedele alla sua visione lo rende un artista autentico, privo di filtri, capace di colpire direttamente l’ascoltatore con la sua voce roca, cruda e inconfondibile, che sembra svelare verità nascoste sotto la superficie.
La sua vita personale riflette lo stesso isolamento che permea la sua musica. Uomo di poche amicizie, viene spesso abbandonato da coloro che gli sono più vicini. Persino la madre lo lascia in giovane età, e le sue due compagne, Moira e Gabriella, non riescono a rimanere al suo fianco. Le sue poesie, frammentarie e incisive, sembrano scritte tra i fumi del tabacco bruno e dell’alcol, strumenti che accompagnano il suo tormento interiore. Esse sono un riflesso di un’anima inquieta, perennemente alla ricerca di qualcosa che sembra sempre sfuggirgli. “Adius” è forse la canzone che più di tutte racchiude tutto il carattere di Piero Ciampi: feroce, amara, ma profondamente umana. In questo brano, l’addio non è solo un distacco malinconico, ma un’esplosione di rabbia trattenuta, di disillusione e frustrazione. Sin dalle prime note, si percepisce che non si tratta del classico commiato dolce e rassegnato, ma di un addio carico di tensione, in cui Ciampi alterna momenti di sofferenza a picchi di ironia amara. Il ritornello stesso, con il suo celebre e tagliente “ma vaffanculo!”, è l’espressione perfetta di questo dualismo. Ciampi si congeda, ma lo fa senza nascondere la sua rabbia, come se quel “vaffanculo” fosse l’unico modo per dire addio con sincerità, senza ipocrisie. Le sue parole sono dirette, crude, eppure permeate di una poetica profondità. In “Adius”, l’addio diventa un atto di liberazione, una rivendicazione di sé, come se quel gesto estremo fosse l’unico modo per ritrovare una qualche forma di dignità in mezzo al caos interiore. Quando canta “Ma non sono io, sono gli altri. E così…Vuoi stare vicina, no?”, la voce di Ciampi è quasi soffocata, come se ogni parola costasse fatica, ma poi esplode in quel “ma vaffanculo!”, rompendo la tensione, liberandosi dalla pesantezza di un sentimento ormai insostenibile. Il brano è un riflesso perfetto della sua poetica: un miscuglio di dolore, ironia e sfida, dove l’addio non è solo una fine, ma un atto di ribellione contro il destino, la vita, e forse anche contro sé stesso.
Piero Ciampi, nel corso della sua breve ma intensa carriera, pubblicò quattro album in studio, due live e sedici singoli, lasciando dietro di sé un’impronta indelebile nella musica italiana. Ma Ciampi non si fermò solo alla musica: la sua vena poetica lo portò a scrivere ben 235 poesie, raccolte in volumi postumi come Canzoni e poesie e Ho solo la faccia di un uomo. In questi componimenti, Ciampi offriva una finestra unica sulla sua visione del mondo, spesso oscura e complessa, ma sempre intrisa di una verità profonda. La sua fine riflette quella solitudine che aveva sempre permeato la sua arte. Morì il 19 gennaio 1980, a soli 45 anni, in un corridoio dell’ospedale Umberto I di Roma, consumato da un cancro all’esofago. Al suo fianco, nell’ultimo respiro, c’era solo il suo medico e amico, il cantautore Mimmo Locasciulli, che anni dopo lo avrebbe omaggiato registrando uno dei suoi brani più struggenti, “Tu no”. Le parole di Ciampi, spesso spezzate e poi ricomposte con una precisione quasi chirurgica, cercano di catturare la complessità dell’esistenza umana. In uno dei suoi versi più celebri, definì il poeta come “un’elegantissima anima che va a cena sulle stelle”, una descrizione che sembra ritrarre lui stesso, sempre sospeso tra la poesia e l’autodistruzione. Questo è il paradosso della sua esistenza: un’anima raffinata e tormentata, in perenne lotta con sé stessa, che cercava nella poesia e nella musica un modo per esprimere quel malessere che non smetteva mai di accompagnarlo:
Quanta gente
d’intorno
che non ci ama.
Gianni
quanta gente
che ci ama
e non può raggiungerci
(da una lettera di Piero Ciampi al suo amico e musicista Gianni Marchetti in De Angelis, Enrico, Piero Ciampi. Tutta l’opera, Milano, Arcana, 1992. p.14 )
Bibliografia
De Angelis, Enrico, Piero Ciampi. Canzoni e poesie, Roma/Sanremo. Lato Side, 1980
De Angelis, Enrico, Piero Ciampi. Tutta l’opera, Milano, Arcana, 1992.
De Angelis, Enrico, Marcheselli, Ugo, Piero Ciampi. Discografia illustrata, Roma, Coniglio Editore, 2008.
De Grassi, Giuseppe Maledetti amici. Cronache di vita, amore e canzoni d’intorno a Piero Ciampi, Roma, Rai Eri , 2001.
De Grassi, Giuseppe, [a cura di], Ho solo la faccia di un uomo, GET, 1985.
Deregibus, Enrico, [a cura di], Dizionario completo della canzone italiana, Firenze, Giunti, 2006, ad vocem.
Gentile, Enzo, Lontani dagli occhi. Vita, sorte e miracoli di artisti esemplari, Laurana Editore, 2015; capitolo Una vita come un romanzo, pagg. 59-83
Marchetti, Gianni, Il mio Piero Ciampi. Pagine di un incontro, Roma, Coniglio Editore, 2010.
Reverberi, Gian Franco, La testa nel secchio. Tenco, Paoli, Lauzi, Ciampi, Dalla. Le mie «figiuate» in compagnia dei cantautori, Guidonia, Roma, Iacobellieditore, 2017.
Ripepi, Eugenio, La canzone teatrale di Piero Ciampi. Congetture e conversazioni sul poeta cantautore livornese, 2015, Zem Edizioni.
Scerman, Gisela, Piero Ciampi, una vita a precipizio. Il cantautore livornese raccontato dagli amici, Roma, Coniglio Editore, 2005.
Scerman, Gisela Piero Ciampi. Maledetto poeta, Roma, Arcana Edizioni, 2012.
Testani, Gianluca [a cura di], Enciclopedia del rock italiano, Roma, Arcana, 2006.
NOTE:
[1] Giuseppe De Grassi [a cura di], Ho solo la faccia di un uomo, GET, 1985. p. 5.
Livornese, Piero Ciampi è stato l’unico dei grandi irregolari italiani ad aver raccontato davvero la propria vita senza filtri. Nacque nel 1934. Lasciata Ingegneria, imparò presto a destreggiarsi con il piano e il contrabbasso, spostandosi poi (1957) nella Parigi di Vian e Sartre; qui frequentò gli ambienti bohémiens e divenne “Piero Litaliano”. Poi viaggiò fra Spagna, Inghilterra e Irlanda, sposando un’irlandese con cui mise in piedi una relazione burrascosa. Si stabilì infine a Genova, dove soggiornava un po’ da Gino Paoli e un po’ da Luigi Tenco, ma soprattutto fra bar e osterie. Leggeva molto. Così maturò una malinconia combattiva, fonte di un linguaggio poetico in parte tributario della vecchia canzone d’amore, in parte al surrealismo, all’esistenzialismo, alla poetica del quotidiano. I brani del suo singolo d’esordio (“Conphiteor/La grotta dell’amore” 1960), realizzato grazie al vecchio compagno di leva militare Gianfranco Reverberi, sono dedicati a una donna amata e ormai perduta. Troviamo spunti memorabili, come quando dice che l’amata ha “lasciato a casa il suo sorriso”(“Forse sopra un libro / o nel vetro del tuo specchio”, da “Hai lasciato a casa il tuo sorriso”) o come in “L’ultima volta che la vidi”, dove il candore retorico dei versi è così sincero da farsi convincente:
Fu una lacrima candida e lunga
che cadendo sopra un fiore
mi fece ricordare
che se bianco è bianco e nero è nero
in questa vita io sono uno straniero.
Senza di lei il giorno non ha né alba né tramonto
e l’arcobaleno e il canto degli usignoli sono cose perdute
[…]
Ed ogni sera ritornano sulla spiaggia
processioni di stelle e di comete
come l’ultima che la vidi.
Il Ciampi cantante ha un’impostazione, fin dai primi anni, che rispetterà e che cercherà di far evolvere sul filo del rasoio di una personalità irriducibile. Quando un Gino Paoli reduce dai trionfi de “Il cielo in una stanza” (1960) lo introduce alla RCA, con un ingaggio altissimo, lui si volatilizza, portando con sé i soldi per un viaggio di tre anni, forse in cerca dell’amata, nelle terre del Nord, come lo stesso Paoli ricorderà molto tempo dopo in un’intervista. Piero, però, ritornerà. Ricominciando a scrivere. E i suoi saranno ancor più dei testi imperniati sull’asse illusione-disincanto, su di un io lacerato dal cronico desiderio di evasione. Si afferma il leitmotiv della bottiglia come fonte di fuga, sia nel classico “Il vino” (“E in mezzo all’acqua sporca / godo queste stelle / questa vita è corta / è scritto sulla pelle”), sia nell’accorata “Tu no” (1971), che riprende in questi termini la “Ne me quitte pas” di Brel:
Tu no, aspetta, no
se non so farti felice
anche se continuo a bere
tu no, amore, no
tu mi devi star vicina
perché ormai io sono fuori…
Non è distante dall’ispirazione, altrettanto diretta, che ha mosso “Non chiedermi più”, pezzo scritto già nel 1963:
Sono anni che guardi con quegli occhi grigi/ E non ti dico niente/Sono anni che sento, che penso/E piango e non ti dico niente/Forse era il destino/Ed è finita così.
La cifra fondamentale di questa lirica amorosa è forse il graffio della disillusione. Sofferenza, instabilità, acuta urgenza di pace ne sono il motore profondo:
Stasera ti confesso
che sono entrato in un porto
ed ho cercato una nave
che mi portasse lontano
non voglio più vedere le cose
che mi hanno fatto sentire questo silenzio…
(“Confesso”,1963):
Forse l’amore è l’unica cura:
Qualcuno tornerà
per sentire la tua voce
per dirti che la vita
è un gioco in mezzo ai prati
che il tempo non ha fine
se vivi per qualcuno
qualcuno tornerà
per amarti tutti i giorni…
(“Qualcuno tornerà”)
La sua nascita è magia:
Quando t’ho vista seduta accanto a me,
le labbra aperte ai suoni del mattino,
volevo tacere, porre fine al ricominciare
ma mi chinai e colsi tra le foglie
il suo sorriso tornato dal passato.
Si volse veloce, pose il viso nel centro del mio cuore.
Quando la vedo seduta accanto a me,
le lunghe gambe distese e felici,
ripenso a quel giorno/ quando sedemmo per caso vicini.
(“Quando ti ho vista”, 1971)
Tranne che in qualche caso (“Cosa resta”, “Tu no”, o l’avvolgente “Quando ti ho vista”, la satirica “Andare camminare lavorare”; o, ancora, “Sobborghi”, sui sogni di pazzie d’amore delusi, o “40 soldati 40 sorelle”, forse dedicata ai soldati americani intervenuti in Italia), Ciampi, che arriva ad esibirsi al “Derby” di Milano e al premio Tenco, interpreta dei recitativi. Nel quadro della canzone nostrana dell’epoca, dominata dal pop (Mina, Vianello, Celentano, i Pooh), non è propriamente la strada maestra per eventuali brani nella top ten. Eppure, è con un brano di Ciampi (“Ho bisogno di vederti”) che Gigliola Cinquetti e Connie Francis colgono un buon successo a Sanremo nel 1965; Lucia Rango interpreta alcuni suoi pezzi (cantano insieme in “Non chiedermi più”), al pari di Dalida su Senza rete con il brano “La colpa è tua” (che secondo alcuni sarebbe una rielaborazione di una precedente canzone di Ciampi, intitolata “Cara”). La RAI gli dedica una serata dopo il geniale Andare camminare lavorare e altri discorsi (1975). Grazie all’aiuto del compositore Gianni Marchetti, già il disco del 1971 Piero Ciampi viene osannato dalla critica. Marchetti scrive per Ciampi, fra l’altro, il magnifico finale jazzato di “Raptus”; ulteriori collaborazioni del cantautore sono quelle con Miranda Martino e Pino Pavone. Performer straordinario, nei pochi concerti è quasi costantemente ubriaco, capace di mandar tutto all’aria insultando il pubblico. Ma queste sfuriate nascondono solo una spigolosa solitudine esistenziale. Leggiamo la celebre “Ha tutte le carte in regola per essere un artista”:
Ha un carattere melanconico
beve come un irlandese
se incontra un disperato
non chiede spiegazioni
divide la sua cena
con pittori ciechi, musicisti sordi
giocatori sfortunati, scrittori monchi
preferisce stare solo
anche se gli costa caro
non fa alcuna differenza
tra un anno ed una notte
tra un bacio ed un addio.
Dopotutto,
Una vita a precipizio
l’esistenza senza un senso
e la discesa niente ritorno
poi la salita viene crudele
come un miraggio
mentre il giorno tramontando
lascia un solco.
(“L’assenza è un assedio”)
Talvolta, nel mezzo d’un prosaico contesto quotidiano, risentimento e nostalgia assumono una coloritura fra l’esistenzialista e il surrealista, come nei tormenti di “Barbara non c’è” :
Ma Barbara non c’è
ha chiuso casa e se ne è andata ed ora
provo smarrimento
tutte le sue scarpe sono qui
il mio amore è scalzo”
O in “Uffa che noia”:
Uffa che noia, non è ancora finito
questo squallido imbroglio tra la vita e la morte,
[…]
La giungla comincia in famiglia,
sono anni che combatto in quella foresta.
La vera guerra non si fa con le armi,
si fa con il cuore, per questo sono un eroe.
Ma uffa che noia questa notte piovosa,
mi sembra una madre che ha perso suo padre,
uffa che noia.
Uffa che noia, che importanza può avere o maestro o buffone?
Questo sole cala sulle sere…
La riflessione sul rapporto fra sogno e realtà presenta qualche volta esiti comici, ma sempre profondamente amari. In “Te lo faccio vedere chi sono io” (1973), Ciampi si sdegna per il modo in cui fa vivere l’amata, le promette una casa da favola, “una pelliccia di leone / con l’innesto di una tigre” e addirittura un sottomarino: a patto che lei gli presti mille lire per il taxi, così da risolvere quel loro “problema volgare”. Impostazione analoga troviamo ne “Il lavoro” (1973), dove spiccano i dettagli della vita quotidiana, in sintonia con certe correnti della poesia italiana coeva:
Il lavoro? Ancora non lo so
mi hanno preso? Non mi hanno detto niente
e allora? Ti ho detto, non so niente
e allora? Allora non lo so
ti ho portato qualche cosa che ti piacerà
ecco il giornale e un pacchetto di sigarette
e dietro a me c’è una sorpresa
un ospite, un nuovo inquilino
c’è la mia ombra che chiede asilo
perché purtroppo anche stavolta
devo dirti che è andata male.
Anche qui, è il sogno nell’amore (o dell’amore?) che permette di sostenere l’onda d’urto della realtà, in uno di quei tipici slanci ciampiani (“Fai finta di niente, non è successo niente / accendi una sigaretta, chiudi la finestra / e spogliati/Io ti porto a nuotare / ti faccio vedere la schiuma bianca del mare / niente suoni, io e te soli”). Il percorso ricorda quello di “Mia moglie”:
La casa mi sembrava una trincea
il tempo mi pesava, cercavo di reagire
sparavo alle illusioni,
dormivo sulle spine
vivevo alla giornata come un tempo
per telefono un uomo mi disse: “Licenziato”
neppure gli risposi, sai quanto me ne fregava
la ruota era girata, non mi importava niente
non avevo rimpianti, provavo indifferenza
se ho perduto tutto, dunque ti ho amata tanto
tu precipitasti nella mia anima
ricordi che ti chiesi: “Ma tu chi sei? Ma tu chi sei?”
e tu mi rispondesti: “Non hai capito”
tu mi rispondesti: “Io sono te”.
Pur così fragile, spesso figlio di un’illusione, l’amore è sostegno per chi incontra gli scacchi della vita, come in “L’amore è tutto qui”, del ’71 (“Tutte le cose che non hai/accanto a me le troverai/nel mondo dell’illusione”), o in “Viso di primavera”, un brano dell’ultimo album (1976), Dentro e fuori (“Hanno distrutto le tue speranze/Viso di primavera/Questi lunghi tramonti senza una sera”); conservarlo è difficile (“Cara, la tua mano è così piccola/Mi sfuggirà sempre/Amore, però ti amo/Sempre di più, anche così”: da “Cara”), ma esso anestetizza la feroce indifferenza del mondo (“L’incontro”: “Forse comincerò a prenderti la mano/poi non saprò come continuare,/farò di tutto perché tu non capisca/l’indifferenza che in questo mondo ci perseguita”). Quello stesso contrasto in grado di animarlo (“Noi per nutrire l’amore/ci sfidiamo a duello,/sarà sempre così”: “Va”), però, lo porta a consunzione. La resa dei conti spezza sogni, ricordi, nostalgie, come nella mesta “In un palazzo di giustizia”; anche qui, il crudo realismo si coniuga in pochi versi con quella vista dall’alto sulle cose così caratteristica di Ciampi:
Siamo seduti in una stanza
di un palazzo di giustizia
tu sei pazza, vuoi spiegare
una vita con due frasi.
Una malmostosa disperazione è ciò che resta, spingendo Ciampi a dire ciò che per un poeta, quale si considera, segna più che per altri la resa di fronte al dolore (“Tu con la testa, io con il cuore”):
Questo nostro amore è una cosa
una delle tante della vita
noi stiamo rovinando tutto con le parole
queste maledette parole.
Già, le parole. Come quelle, furibonde, di“Adius”, un brano di forte struttura musicale che, in mezzo alle infinte canzonette sentimentali degli anni Settanta, fa un effetto simile all’ “Avvelenata” di Guccini. Parte con immagini come sempre foneticamente studiate, suggestioni surrealistiche, metafore, più il consueto tema dell’indifferenza:
La tua assenza
è un assedio
ma ti chiedo
una tregua
prima dell’attacco finale
perché un cuore giace inerte
rossastro sulla strada
e un gatto se lo mangia
tra gente indifferente
Dopodiché precipita, a sorpresa, nell’invettiva:
Ma vaffanculo
te e tutti i tuoi cari, ma vaffanculo
ma come?
Ma sono secoli che ti amo, cinquemila anni
e tu mi dici di no!
ma vaffanculo!
sai che cosa ti dico?
vaffanculo!
te, gli intellettuali e i pirati, vaffanculo!
Perché Ciampi è brusco, altero e sincero: similmente a un altro gran toscano, Luciano Bianciardi, che ha scritto l’inclassificabile “La vita agra”, si dipinge come un autore alternativo al Sistema (dichiara che in tv sono tutti “ancorati a certe condizioni di perbenismo assolutamente ridicolo”), compagno di vita poco affidabile, padre mancato. Come leggiamo in “Sporca estate”, affonda nell’angoscia e reagisce con l’alcol, sapendo di aver imboccato una strada senza uscita: il suo classico “Il vino”, un breve pezzo solo in apparenza gioioso, contiene già il presentimento della fine.
Dopo il bellissimo e sfortunato Io e te abbiamo perso la bussola (1973), nel ’75 si riafferma con Andare camminare lavorare, un’antologia (più due inediti: il brano che dà il titolo all’album e la visionaria “Cristo tra i chitarristi”, d’intonazione pacifista: “Un coro di chitarre infelici cantava per disperdere l’odio”) che ne attesta, almeno in parte, la grandezza. Ma la sua strada, segnata dall’alcol, è ormai vicina al capolinea, e questo anche se nel 1975 la giovanissima Nada, popolare interprete di “Ma che freddo fa”, incide un intero disco di suoi pezzi, Ho scoperto che esisto anch’io. Lo incontriamo ancora in Tre uomini e una donna di Ezio Alovisi, che viene portato a teatro e poi in tv con Paolo Conte, Nada e Renzo Zanobi (luglio 1976. Ezio Alovisi nel 2008 dedicherà a Ciampi un film), ma, come la cantante ricorderà, le chic et le charme di Conte fanno ingelosire follemente Ciampi. Poi eccolo in un’interpretazione di “Ma che buffa che sei” alla manifestazione ‘Canto per la libertà!’ il 25 aprile 1978 al Palazzo dei Congressi di Bologna. Due settimane dopo, Ciampi rilascia un’intervista a Gianni Elsner per Radio Luna.
Ciampi muore di un tumore all’esofago nel gennaio del 1980, pochi giorni dopo l’uccisione a Palermo di Piersanti Mattarella—fratello del Presidente della repubblica Sergio Mattarella—con un Paese che pensa a tutto fuorché a ricordarlo. Ad assisterlo fino agli ultimi attimi è Mimmo Locasciulli, il suo medico, il quale anni dopo gli renderà omaggio interpretando “Tu no”. È una morte che, per dirla alla Pirandello, “non conclude”. Per dirla invece con Ciampi: “Niente risolto”:
Sete di non sentire più non avere non essere,
fuori senza sosta quel sole tramonta sempre.
La testa se ne va oltre la sera
non fa più parte del mio corpo, di tutto,
di questo giorno.
Niente sapere niente risolto.
Se ci fosse ancora Piero, chissà.
Bibliografia:
Felice Liperi, Storia della canzone italiana, Roma, Rai Libri, 1999
Roberto Caselli, Storia della canzone italiana, Milano, Hoepli, 2018
Nada Malanima, Come la neve di un giorno. Una visione, Roma, Atlantide, 2023
Sito Ufficiale di Piero Ciampi: https://premiociampi.it/piero-ciampi/