Vedi cara, è difficile spiegare,
è difficile parlare dei fantasmi di una mente.
Vedi cara, tutto quel che posso dire
è che cambio un po’ ogni giorno, è che sono differente.
Vedi cara, certe volte sono in cielo
come un aquilone al vento che poi a terra ricadrà.
Vedi cara, è difficile spiegare,
è difficile capire
se non hai capito già.
Vedi cara, certe crisi son soltanto
segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire.
Vedi cara, certi giorni sono un anno.
Certe frasi sono un niente che non serve più sentire.
Vedi cara, le stagioni ed i sorrisi
son denari che van spesi con dovuta proprietà.
Vedi cara, è difficile spiegare,
è difficile capire
se non hai capito già.
Non capisci quando cerco in una sera
un mistero d’atmosfera che è difficile afferrare,
quando rido senza muovere il mio viso,
quando piango senza un grido
quando invece vorrei urlare,
quando sogno dietro a frasi di canzoni,
dietro a libri e ad aquiloni,
dietro a ciò che non sarà.
Vedi cara è difficile spiegare,
è difficile capire
se non hai capito già.
Non rimpiango tutto quello che mi hai dato
che son io che l’ho creato e potrei rifarlo ora,
anche se tutto il mio tempo con te non dimentico perché
questo tempo dura ancora.
Non cercare in un viso la ragione
in un nome la passione che lontano ora mi fa.
Vedi cara, è difficile spiegare
è difficile capire
se non hai capito già.
Tu sei molto, anche se non sei abbastanza
e non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi.
Tu sei tutto, ma quel tutto è ancora poco,
tu sei paga del tuo gioco ed hai già quello che vuoi.
Io cerco ancora e così non spaventarti
quando senti allontanarmi
fugge il sogno, io resto qua.
Sii contenta della parte che tu hai.
ti do quello che mi dai, chi ha la colpa non si sa.
Cerca dentro per capir quello che sento,
per sentir che ciò che cerco non è il nuovo o libertà.
Vedi cara, è difficile spiegare
è difficile capire
se non hai capito già.
You See, My Dear
Translated by:
Fabio Romerio
You see my dear, it’s hard to explain.
It’s hard to talk about a mind’s ghosts.
You see my dear, all I can say
is that I change a little bit every day, and that I am different.
You see my dear, sometimes I fly up high in the sky
like a kite in the wind that eventually will fall back down.
You see my dear, it’s hard to explain.
It’s hard to understand
if you don’t already know.
You see my dear, these crises are just
the sign of something inside that is screaming to come out.
You see my dear, some days last as long as an entire year.
Some phrases mean nothing and they’re not worth listening to anymore.
You see my dear, seasons and smiles
are like money to be spent wisely.
You see my dear, it’s hard to explain.
It’s difficult to understand
if you don’t already know.
You don’t understand when one evening I look for
a special atmosphere that is hard to grasp,
when I laugh without moving my face,
when I weep without a sound
and instead I would like to scream,
when I dream through the lines of a song,
with books and kites,
with something that will never happen.
You see my dear, it’s hard to explain.
It’s hard to understand
if you don’t already know
I don’t miss everything you have given me
Because I was the one who created it and I could do it again,
even though I don’t forget the time spent with you because
that time still continues now.
Don’t look for the reason in a face
and the passion in a name that now makes me so distant.
You see my dear, it’s hard to explain
It’s hard to understand
if you don’t already know.
You are a lot, even though you’re not enough
And you can’t see the distance between my thoughts and yours.
You’re everything, but that everything is still too little.
You’re content with your game and already have what you want.
I’m still looking so don’t be afraid
when you feel that I am moving away.
The dream will end, and I will still be here!
Be happy with the role you have.
I give you what you give me, no one knows whose fault it is.
Look inside yourself to understand how I feel,
to feel that what I am looking for is not something new, not freedom.
You see my dear, it’s hard to explain.
It’s hard to understand
if you don’t already understand
Nato a Modena nel 1940, Francesco Guccini è uno dei cantautori italiani più conosciuti. La sua carriera abbraccia circa 50 anni, durante i quali ha registrato 16 album originali e si è esibito in innumerevoli concerti. Sebbene non si esibisca più, la sua voce caratteristica e le celebri ballate lo rendono uno dei cantanti folk più iconici della sua generazione. Nel 2001, Guccini si è trasferito da Bologna a Pàvana, il suo villaggio ancestrale sugli Appennini, dove, tra il 2011 e il 2012, ha trasferito i suoi musicisti e un intero studio di registrazione per incidere il suo ultimo album (Ultima Thule) e girare un documentario su questo sforzo (La mia Thule). Nello stesso anno, sempre a Pàvana, annunciò che non avrebbe più fatto concerti e album, e si ritirò dalla scena musicale.
La vita va avanti e l’imponente cantautore concentra ora la sua ispirazione artistica sulla scrittura di romanzi gialli (con Loriano Macchiavelli) e raccolte autobiografiche. Prima di ritirarsi dalle scene aveva già scritto un’importante trilogia autobiografica: Cròniche epafàniche (1991), Vacca d’un cane (1993) e Cittanòva blues (2003). In questi libri, usa un idioletto che colloca la lingua italiana nel contesto di diversi paesaggi sonori dialettali, a seconda di dove sono ambientati i libri. Cròniche epafàniche, dedicata alla sua infanzia in Appennino, ha conquistato i lettori per la facilità narrativa e il forte immaginario, determinato dalle sue originali scelte linguistiche. Ad esempio, in un brano dedicato al suo passatempo d’infanzia, la pesca nel torrente locale, scrive:
è più facile prenderli, i pesci, con le mani, quando il gorello dello sfioratore del botàccio va in secca, e nelle pozétte qualche pesce rimane: una volta, quando c’era più pesci, usavano anche le nasse di stroppe che ora sono rinsecchite e inerti nel Maganzino. (17)
L’importanza di Guccini come cantautore nella storia della musica italiana non può essere sopravvalutata. Le sue ballate mescolano etica e poetica, satira e indignazione, passato e presente.
Anche chi non ha familiarità con il suo vasto corpus di opere si è imbattuto in alcune delle prime canzoni di Guccini, come “Dio è morto” (Folk Beat n. 1, 1967), ispirato nel titolo a Così parlò Zarathustra di Nietzsche e nel testi di “Howl” di Allen Ginsberg:
Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente cercare il sogno che conduce alla pazzia alla ricerca di qualcosa che non si trovano
Un’altra delle sue famose ballate è “Auschwitz”, nota anche come “La canzone del bambino nel vento”, scritta dopo aver letto un libro autobiografico di Vincenzo Pappalettera intitolato Tu passerai per il camino:
Son morto che ero bambino sono morto con altri cento. Passato per il camino e adesso sono nel vento.
Guccini è l’autore de “L’Avvelenata” (Via Paolo Fabbri, 43, pubblicato nel 1976) uno dei brani più scurrili della storia della musica cantautorale italiana. Costituisce un potente atto di indignazione, costellato di parolacce. Se all’inizio sembrava scandaloso, in seguito è diventato un simbolo dell’intensità delle proteste personali che hanno caratterizzato gli anni ’70.
Guccini ha sempre affermato di essere più anarchico che comunista. “La locomotiva” (Radici, 1972), con cui concludeva tutti i concerti, è una delle sue canzoni distintive. Si tratta di una lunga ballata anarchica su un ingegnere ferroviario, Pietro Rigosi, che, alla fine dell’Ottocento, cercò di scagliare una locomotiva contro un treno passeggeri, per protestare contro le difficili condizioni di vita dell’epoca.
Nel suo canzoniere Francesco Guccini invia un forte messaggio etico, poetico, politicamente impegnato e spesso satirico. Per tutti questi motivi, Dario Fo una volta lo chiamò “la voce del movimento”. Le influenze sulla sua musica e sui suoi testi sono Jacques Brel e Georges Brassens, Bob Dylan e Paul Simon, così come Édit Piaf.
Per quanto riguarda la sua iconografia, era famoso per esibirsi con una bottiglia di vino sotto la sedia. “Al rosso saggio chiedi i tuoi perché”, scrive in “Un altro giorno è andato” (Un altro giorno è andato / Il bello, 1968). Nelle sue liriche il vino è compagno di molte notti; il “saggio rosso” che menziona in quella canzone è infatti una metafora del vino rosso.
Francesco Guccini è probabilmente l’unico cantautore che ha fatto del proprio indirizzo privato il titolo di un suo album. Via Paolo Fabbri, 43, a Bologna, è diventato un pellegrinaggio necessario per chi ammira la produzione poetica e musicale del cantautore.
La sua poesia è ispirata dalla sua vasta conoscenza letteraria, che traspare in innumerevoli riferimenti, da Carlo Collodi ad Alessandro Manzoni, da Jack Kerouac a John Dos Passos, da Guido Gozzano a Carl Barks. La profondità e il valore letterario del suo corpus di opere gli sono valsi un gran numero di riconoscimenti, tra cui, nel 1992, il prestigioso Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale per la sezione “versi in musica”.
Gozzano in particolare è stato molto influente per i testi più intimi di Guccini. L’autore, infatti, è debitore al crepuscolarismo sia nelle sue atmosfere che nelle scelte stilistiche. Ad esempio, la famosa canzone “Incontro”, (Radici, 1972) che descrive una cena, dopo tanti anni, con una compagna di liceo, Guccini menziona che le posate avevano il colore della nostalgia (stoviglie color nostalgia). Si può sentire, in questa canzone romantica e nostalgica, un riferimento alla lunga poesia di Gozzano “Signorina Felicita”, (I colloqui, 1911) in particolare un riferimento agli occhi di Felicita, descritti da Gozzano come posate-blu (“azzurri di un azzurro di stoviglia”). Il prestito più evidente da Guido Gozzano è, tuttavia, l’adattamento di Guccini di “La più bella”, una poesia che Guccini ha musicato con il titolo “L’isola non trovata“.
In una recente intervista (per il talk show di Diego Bianchi, Propaganda live) Guccini lamenta la scomparsa di chi popolava le “sue” montagne, e quindi l’annacquamento di quella particolare cultura, e delle sue stesse radici. La ricerca delle proprie radici è uno dei temi principali del suo canzoniere, in particolare nel suo album del 1972, Radici. La canzone che ha dedicato a suo zio Amerigo, emigrato negli Stati Uniti e tornato a Pàvana solo da vecchio, esemplifica la sua attenzione per la storia della sua famiglia.
Il tema di Pàvana come locus amoenus dove vengono risolte molte delle contraddizioni della vita è uno dei temi più duraturi dei suoi testi. Il suo ultimo album, Ultima Thule (2012), registrato all’interno del mulino che appartiene alla sua famiglia da diverse generazioni, è pieno di ricordi d’infanzia, incluso il suono della ruota del mulino che continuava a macinare giorno e notte quando era bambino.
Un altro tema importante nelle produzioni di Guccini è il tempo. Nella canzone che presta il titolo al suo ultimo album, “Ultima Thule”, si lamenta del passare del tempo, che ha posto fine alle scappatelle di predoni con i suoi più cari amici musicisti:
Io che tornavo fiero ad ogni porto dopo una lotta, dopo un arrembaggio, non son più quello e non ho più il coraggio di veleggiare su un vascello morto.
Dov’è la ciurma che mi accompagnava e assecondava ogni ribalderia? Dove la forza che ci circondava? Ora si è spenta ormai, sparita via.
(“Ultima Thule”, Ultima Thule, 2012)
Non dovremmo preoccuparci di questa malinconica ultima canzone. Il buen retiro di Guccini in Appennino è meta di appassionati e studiosi. Non sembra nemmeno preoccuparsi delle frequenti interruzioni o del suo status leggendario tra i suoi ammiratori. Nella speranza di incontrarlo un giorno a Pàvana, attendiamo con ansia il suo prossimo romanzo giallo.
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