Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua
lei è partita per le spiagge e sono solo quassù in città
sento volare sopra i tetti un aeroplano che se ne va.
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me
mi accorgo di non avere più risorse senza di te
e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo vengo da te
ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va.
Cerco un po’ d’Africa in giardino, tra l’oleandro e il baobab
come facevo da bambino, ma qui c’è gente, non si può più
stanno innaffiando le tue rose, non c’è il leone, chissà dov’è
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me
mi accorgo di non avere più risorse senza di te
e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo vengo da te
Ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va
Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa
quelle domeniche da solo in un cortile, a passeggiar,
ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar.
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me
mi accorgo di non avere più risorse senza di te
e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo vengo da te
ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va.
“La pigra insoddisfazione della nostra insufficienza” di Giulio Ferroni.
In qualche mese del 1968, di quell’anno convulso, in cui poca attenzione facevo alla canzone italiana, Azzurro è come precipitato con la con la voce di Adriano Celentano, con quella carica ritmica e con quegli echi adolescenziali the allora sapeva suscitare. Quelle note di marcetta erompevano nelle situazioni più diverse, lasciavano echi e lacerti nei momenti più vari della giornata: e, in questo ascolto frammentario, c’è voluto un po’ di tempo prima che l’intero sviluppo delle strofe di Vito Pallavicini fosse pienamente identificato e riconosciuto. Azzurro arrivò a ritmare, non sol in quell’anno, una certa accidia e scontentezza dei pomeriggi estivi. In quei pomeriggi passati in città raccoglieva il più generico disagio, il desiderio di essere altrove, la nostalgia per qualcosa di perduto, il ricordo di un’infanzia parrocchiale (“nemmeno un prete…”) che io avevo quasi vergogna ad accettare e che mi guardavo bene dal comunicare ad amici e coetanei, come fosse una sorta di macchia sulla mia origine. Nel mese che passai a Monterosso, in un continuo infittirsi di echi e suggestioni montaliane (quante volte constatai ed evocai “la febbre nascosta dei diretti / sulla costa che fuma”!), la voce di Celentano si proiettò sull’azzurro marino, sul profilo di Punta del Mesco, tra le vampe dello Sciacchetrà, come segno di una poesia “minore”, richiamo di una misura domestica, popolare, casalinga, legata comunque ad un insopprimibile malessere, alla mia smania sempre ritornante di attardato adolescente. Chissà cosa ne è di una Maria Luisa milanese incontrata in quella vacanza, su cui più squillante si imponeva la voce di Mina (era E se domani… o Vorrei che fosse amore ?). Allora non sapevo nulla di Paolo Conte; doveva passare ancora qualche anno perché conoscessi anche la sua voce e ancora altri perché lo ascoltassi cantare anche in Azzurro. Ma ormai da anni ascolto questa canzone soltanto dalla sua voce, che mi se è impressa retroattivamente su quei tardi anni sessanta, come un sigillo, che evoca non i tanto frequentati vortici ideologici e sociali, ma la ronzante, pigra, insoddisfatta vita di azzurri pomeriggi sospesi alla propria insufficienza, al proprio non sapere, alla propria incapacità di percepire cosa si stava affacciando sulla scena del mondo, al proprio desiderio di prendere comunque il treno e venire “da te”. E mi ripeto ancora : “stanno annaffiando le tue rose / non c’è il leone, chissà dov’è”. Parlava di quello che non riuscivamo a vedere, di quello che è perduto per sempre?
(da: Azzurro. Conte, Celentano, un pomeriggio, a cura di Fabio Canessa, Donzelli, 2008)