Giorgio Gaber

(di Debora Bellinzani, University of Wisconsin, Madison)

Giorgio Gaber (Giorgio Gaberscik, Milano 1939 – Montemagno di Camaiore 2003) ha accompagnato, con musica e parole, un vasto pubblico attraverso più di quarant’anni che hanno profondamente segnato la politica, la cultura e anche i gusti musicali degli Italiani. Nella prima parte della sua carriera, tra il 1959 e il 1969, Gaber ha scritto e interpretato canzoni romantiche che rispecchiavano il gusto del pubblico del tempo e hanno ottenuto un grande successo attraverso la televisione. Di questo primo periodo va segnalata l’intensa e importante collaborazione con Maria Monti, sua compagna e attrice e cantautrice: la loro interpretazione al Sanremo 1961 è all’insegna di uno humor nero: la canzone che interpretano, a testi alterni dai due diversi punti di vista di lui e di lei, è “Benzina e cerini”, scritta da Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Domenico Scardina, Umberto Simonetta e Federico Scardina. Il testo ironizza sulla piromania di lei che vuol dar fuoco a lui:


Il mio destino è di morire bruciato
la mia ragazza deve proprio averlo giurato
ha inventato un nuovo gioco
mi cosparge di benzina e mi dà fuoco
e io brucio brucio d’amore.

E nella versione di lei, uguale e simmetrica:

il mio ragazzo chi lo sa perché è preoccupato
ho inventato un nuovo gioco
lo cospargo di benzina e gli do fuoco
e lui brucia, brucia d’amore.

Gaber e Monti continueranno la collaborazione per qualche anno (per esempio con lo spettacolo teatrale Il Giorgio e la Maria, 1961) prima di interrompere l’intesa artistica e la loro relazione.

Molto più longeva è stata invece la sua collaborazione con Enzo Jannacci, cantautore geniale, pianista, attore e stand-up comedian con il quale Gaber ha dato vita al cosiddetto Teatro Canzone, ossia spettacoli costituiti da un insieme di brani musicali e monologhi recitati. Questo nuovo genere, che Gaber porta sulle scene dal 1970 al 2000, nasce da un profondo desiderio di entrare in contatto diretto con il pubblico, in un confronto che andasse oltre lo schermo televisivo. Per trent’anni, attraverso centinaia di serate, Gaber, così come Jannacci e Dario Fo, ha raccontato criticamente le trasformazioni dell’Italia e degli italiani (passati attraverso terrorismo, neo-fascismo, società dei consumi, caduta del comunismo, e berlusconismo) con sguardo arguto e sottile, offrendo il proprio modo di pensare a un confronto continuo con un pubblico, accettando sia gli applausi sia dure contestazioni. La generosa condivisione del proprio lavoro artistico dal vivo è stata limitata dalle condizioni di salute; è questo il motivo per cui i suoi ultimi lavori, anziché spettacoli teatrali, sono due album incisi in studio.

Nonostante i vincoli che l’ambiente televisivo impone, l’originalità e l’ironia di Gaber trovano spazio già negli anni Sessanta: a una canzone tipicamente romantica come “Non arrossire” (1961), in cui la voce narrante chiede all’amata di lasciarsi andare al sentimento, segue un successo come “Torpedo blu” (1968) in cui l’amata passa in secondo piano rispetto all’orgoglio per il possesso dell’automobile di lusso con cui il protagonista, strombazzando con il clacson per farsi notare, si presenta sotto casa. Oltre al genere romantico, anche quello popolare entra nel repertorio di Gaber con ironia: esempio ne sono un altro orgoglioso automobilista e un’altra macchina, “La Balilla” (1963), protagonisti di una canzone in dialetto milanese. Qui la costosa automobile, ostentata come simbolo di ascesa sociale, scatena l’invidia dei parenti e dei vicini di casa che la demoliscono in modo irreparabile, dal momento che la mangiano pezzo per pezzo in un susseguirsi di scene comiche.

La comicità di Gaber non si trova solo nei testi, dal 1970 scritti a quattro mani con Sandro Luporini, ma anche nell’esecuzione dei brani. C’è un’intensità, talvolta comica e talvolta drammatica, che si può cogliere all’ascolto prestando attenzione al tono della voce, alla dizione, al modo di scandire le parole e alle pause tra esse. C’è però anche un’intenzione che ha potuto cogliere chi ha assistito agli spettacoli dal vivo e che può vedere, oggi, chi visioni i pochi filmati degli spettacoli disponibili. Le espressioni del viso, i gesti, i movimenti del corpo e in generale la capacità recitativa di Gaber hanno reso le canzoni di volta in volta ironiche, comiche, drammatiche o provocatorie, in un dialogo incessante con gli ascoltatori. Un video che permette di apprezzare il modo in cui Gaber interpretava i brani è “Al bar Casablanca” (Dialogo tra un impegnato e un non so, 1972): la figura dell’intellettuale politicamente impegnato è qui criticata nel suo risolversi nelle inconcludenti discussioni al bar nel testo, e resa con un’irresistibile aria blasé nella recitazione. Calandosi nel personaggio inteso come rappresentante di una categoria di persone, Gaber canta un “noi” che descrive il proprio aspetto e il proprio atteggiamento:

Blue jeans scoloriti
la barba sporcata
da un po’ di gelato
parliamo parliamo
di rivoluzione
di proletariato.

Allo stesso modo si può osservare la capacità di riprodurre in modo significativo gesti della vita di tutti i giorni come ne “Lo shampoo” (Far finta di essere sani, 1973), un brano che rende comico un comportamento quotidiano, quello di lavarsi i capelli, utilizzandolo come spunto per una critica della società dei consumi che mette a disposizione una gran quantità di prodotti sostanzialmente uguali tra loro. Senza l’aiuto di suoni o di oggetti, Gaber canta e mima ciò di cui tutti hanno esperienza ma su cui nessuno sofferma il pensiero.

Scende l’acqua scroscia l’acqua
calda fredda calda 
giusta

Shampoo rosso e giallo
quale marca mi va meglio 
questa.

Ancora in “Quello che perde i pezzi”, parte del medesimo spettacolo, la mimica e le espressioni rendono comico lo stupore per lo smembramento inatteso del corpo dell’uomo travolto dalla modernità.

Perdo i pezzi ma non è per colpa mia 
se una cosa non la usi non funziona 
ma che vuoto se un ginocchio ti va via

che tristezza se un’ascella ti abbandona.

Che rimpianto per quel femore stupendo 
ero lì che lo cercavo mogio mogio 
poi dal treno ho perso un braccio 
salutando mi dispiace che ci avevo l’orologio.

La critica della perdita di naturalezza e della società dei consumi sono due nodi della riflessione di Gaber e fanno parte dei temi ricorrenti nella sua produzione.

Tema costante nei lavori dal 1970 in poi è la descrizione dell’attualità attraverso un approccio critico adottato con il convincimento che questo possa contribuire al cambiamento della società. Il brano “Suona chitarra” (Il signor G, 1970) segna, come lo spettacolo di cui fa parte, la distanza dalla musica degli esordi: è sia una critica alla canzone di intrattenimento, sia un’apertura alla possibilità che una produzione musicale possa incidere sulla realtà ed essere un “canto sincero” anziché uno strumento di distrazione che non fa “mai pensare / al buio alla paura al dubbio alla censura / agli scandali alla fame all’uomo come un cane / schiacciato e calpestato”. Negli anni tra il 1970 e il 1978 il lavoro artistico di Gaber si trova in sintonia con le istanze del Movimento di lavoratori e studenti che, nelle piazze italiane, rivendica diritti e un diverso modo di vivere; negli stessi anni quel desiderio di cambiamento è contrastato con violenza. Nel 1974, l’anno in cui bombe uccidono civili durante un comizio a Brescia e passeggeri del treno “Italicus”, lo spettacolo “Anche per oggi non si vola” catalizza le paure e le speranze degli spettatori con cui Gaber trova grande sintonia. Il pubblico di Gaber riempie i teatri per ascoltare brani che raccontano la contemporaneità come “La peste”, che associa l’esistenza di una destra eversiva alla diffusione del morbo mortale e la forma del batterio a quella di uno strumento di violenza tipico del regime fascista, il manganello: “Un bacillo a bastoncino / che ti entra nel cervello / un batterio negativo / un bacillo a manganello”. Gli spettatori si trovano a condividere non solo la lettura di una realtà spaventosa e caotica, ma anche intenti propositivi in testi che invitavano a non cedere al ricatto di quella violenza. È il caso di “C’è solo la strada”, un brano divenuto molto famoso nel suo invito a non chiudersi in casa ma a resistere in modo aperto e collettivo perché “il giudizio universale / non passa per le case / le case dove noi ci nascondiamo / bisogna ritornare nella strada / nella strada per conoscere chi siamo”. Nel 1978 tuttavia, quando il racconto della realtà diventa critico nei confronti del Movimento, Gaber è oggetto di dure contestazioni durante gli spettacoli ai quali, però, non rinuncia. In brani come “Quando è moda è moda” (in “Polli di allevamento”, 1978) o “Io se fossi Dio” (in “Anni affollati”, 1981) Gaber racconta la perdita di forza propositiva di quel Movimento e la sua rinuncia a progettare una società differente e, sebbene dispiaciuto per le critiche, continua a offrire al pubblico la propria riflessione. Il confronto con gli spettatori è così vitale per la sua musica e il suo tipo di performance da portarlo a raccontare il proprio disincanto sino al 2001, quando intitola l’ultimo spettacolo teatrale “La mia generazione ha perso”.

Un altro tema ricorrente nella produzione di Gaber è la discrepanza tra pensiero e comportamento che caratterizza l’uomo contemporaneo. Tra i brani più conosciuti, “Un’idea” (Dialogo tra un impegnato e un non so, 1972) descrive in uno degli esempi lo scarto sostanziale tra dichiararsi antirazzista ed esserlo nei fatti, e riassume la mancanza di armonia tra pensiero e azione in un’immagine capace di ricomporli in un’unità: “un’idea / finché resta un’idea / è soltanto un’astrazione / se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia rivoluzione”. Anche l’uomo che trova soddisfazione comprando una moto in “Far finta di essere sani” (nello spettacolo omonimo, 1973) e quello che legge Hegel per apparire intellettuale ne “Il comportamento” (Libertà obbligatoria, 1976) sono figure che, cedendo alle mode e ai dettami di una società che le snatura, perdono l’armonia tra pensiero e comportamento. L’amore non sfugge a questo tipo di riflessione e, da sentimento cantato negli anni Sessanta, diventa terreno di un’analisi spietata ma anche dolce e propositiva. Tra i tanti brani che parlano direttamente o indirettamente d’amore, “Quando sarò capace di amare” (E pensare che c’era il pensiero, 1994) trasla il discorso sul bisogno di riconquistare la naturalità del vivere e l’unità dell’essere umano nel contesto amoroso. Gaber parla di sé, in prima persona e al maschile, e tuttavia il suo discorso fatto di parole semplici potrebbe essere pronunciato da uomini e donne che, come il pubblico ritrovato negli anni Ottanta, ne condividano le esigenze; Gaber infatti, riferendosi all’altro, canta: “Quando sarò capace d’amare / […] potrò guardare dentro al suo cuore / e avvicinarmi al suo mistero / non come quando io ragiono / ma come quando respiro”.

Il motivo che meglio caratterizza Gaber rispetto ad altri cantautori che hanno scelto di confrontarsi con il Movimento e gli avvenimenti degli anni Settanta e Ottanta è l’elaborazione della relazione tra ciò che è “personale” e ciò che è “politico”, uno dei nodi della discussione di quel periodo. Tracce di quella discussione si possono trovare in “Eskimo” di Francesco Guccini, che colloca l’ingenuità soggettiva nel quadro delle lotte politiche, e “Ma chi ha detto che non c’è” di Gianfranco Manfredi che, in un elenco di azioni, oggetti e sentimenti, associa elementi intimi ad aspirazioni collettive. In molti brani di Gaber si ascolta l’esigenza di trovare una sintesi in senso costruttivo, che unisca il personale al politico così come il pensiero all’azione; commentando questo aspetto, il coautore Sandro Luporini ha affermato che Gaber credeva che il fatto individuale dovesse essere allargato a una visione collettiva che, a sua volta, portasse a un impegno diretto sulla realtà. Il brano più esplicito in questo senso è “Chiedo scusa se parlo di Maria” (in “Far finta di essere sani”, 1973) per la forza con cui presenta la difficoltà di comprendere la relazione tra termini, il personale e il politico, che sono in realtà inscindibili: “Se sapessi parlare di Maria / se sapessi davvero capire la sua esistenza / avrei capito esattamente la realtà / la paura la tensione la violenza. / Avrei capito il capitale e la borghesia / ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria”. Maria che è un individuo, ma che è anche “la libertà / Maria la rivoluzione / Maria il Vietnam la Cambogia / Maria la realtà”.

Mantenere la volontà di incidere sulla realtà è dunque un elemento cardine in tutta la produzione di Gaber, nonché la ragione della distanza dal Movimento nel momento in cui questo perde il proprio slancio propositivo. La ricerca di quello spazio in cui cambiare la realtà diviene possibile è per Gaber incessante e si muove da “La libertà” (Dialogo tra un impegnato e un non so, 1972) fino al suo ultimo lavoro. Ne “La libertà”, uno dei brani più noti e meno compresi della sua produzione, Gaber indica quello che Luporini ha definito “spazio di incidenza”: quando cantava “la libertà / non è star sopra un albero / non è neanche avere un’opinione / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione”, intendeva con il termine “partecipazione” indicare uno spazio collettivo dove pensare e agire perché il cambiamento diventi possibile. Questo spazio di possibilità è per Gaber tanto significativo da giungere sino all’ultimo brano dell’ultimo album per essere offerto alla riflessione. È uno spazio utopico e allo stesso tempo ben definito; in “Se ci fosse un uomo” (Io non mi sento italiano, 2003), con quel caratteristico spirito critico che non esclude mai la speranza, Gaber lo descrive come:

…uno spazio vuoto
che va ancora popolato.
Popolato da corpi e da anime gioiose
che sanno entrare di slancio
nel cuore delle cose.


Popolato di fervore
e di gente innamorata
ma che crede all’amore
come una cosa concreta.
[…] Popolato da chi crede
nell’individualismo
ma combatte con forza
qualsiasi forma di egoismo.   
Popolato da chi odia il potere
e i suoi eccessi / ma che apprezza
un potere esercitato su se stessi.

Popolato da chi ignora
il passato e il futuro
e che inizia la sua storia
dal punto zero”.

Dal 1980 Gaber iniziò ad affrontare il declino dell’interesse dell’Italia per le ideologie (“Non è più il momento”, Pressione bassa, 1980), rifiutando ideologie logore.

Non è più il momento di fare lunghe discussioni […] per inutili teorie […]

non è più il momento di generose aggregazioni
di noiosissime riunioni né di analisti né di fantasia
non è più il momento di aver fiducia nei contatti 
di ritentare la comune e di dare del tu a tutti

 
Le canzoni di Giorgio Gaber, la sua presenza scenica e la sua personalità hanno connotato e formato la storia della canzone, del cabaret e della televisione italiana del secondo Novecento, lasciando, alla sua morte, un vuoto e un’impronta non solo fra gli artisti italiani, come testimonia un tributo di Patti Smith che tradusse e interpretò “Io come persona” per la Rai nel 2013.

Bibliografia e sitografia:

Fondazione Giorgio Gaber (http://www.giorgiogaber.it/)

Ciabattoni, Francesco. “Italy’s Cantautori against the Backdrop of Riflusso” in La memoria delle canzoni popular music e identità italiana, a cura di Alessandro Carrera, Pasturana (AL), Punto a capo, 2016, pp. 140-168.

Luporini, Sandro. G. Vi racconto Gaber, Milano, Mondadori, 2013.

Tomatis, Jacopo. Storia culturale della canzone italiana, Milano, Il Saggiatore, 2019.

Translated songs: