(Zocca, 1952 – )
Di Chris Newman (George Mason University)
Sebbene praticamente sconosciuto al pubblico americano, Vasco Rossi è una rock star di livello mondiale. Questa non è una semplice iperbole: nel 2017 Vasco (non ha bisogno del cognome, è riconosciuto dal solo nome) ha battuto il record del mondo vendendo 225.173 biglietti per un singolo spettacolo nella sua città natale, Modena. All’epoca aveva 65 anni, ma quello non era un concerto d’addio. Continua a vendere moltissimo anche per concerti negli stadi e ha ancora quel tipo di fan che si tatuano il corpo con i suoi testi e li pubblicano sui social media. È rischioso tracciare analogie tra artisti, ma quando cerco di trasmettere agli americani qualche suggerimento sulla statura e sullo stile di Vasco, di solito dico che è un po’ come lo Springsteen italiano e Lou Reed messi insieme: Vasco sembra mettere insieme la passione lirica del primo con lo stile semi-parlato del secondo, e come loro indulge in provocazioni ed eccessi. Se Springsteen è il “Boss”, Vasco è il “Komandante”. Scrive il tipo di canzoni che funzionano sia come sacramento orgiastico del rock and roll o come accompagnamento di balletto orchestrale (tuttavia, se lo prendiamo in parola, le canzone non le scrive in modo programmato, ma nascono semplicemente come fiori). Vasco vanta così tanti successi nella sua discografia (che include circa 15 album in studio e altrettante uscite live o compilation) che le sue scalette in ogni tour tendono a includere diversi medley o mash-up che permettono ai fan di provare la gioia di cantare insieme almeno una strofa o un ritornello di quelli che non c’è il tempo di eseguire per intero. Vasco il dio della ribellione del rock & roll
Vasco, dio del Rock & Roll ribelle.
Tra i tanti cantautori italiani di talento presenti in questo sito, Vasco è quello che meglio esemplifica il moderno archetipo mitico della rock star. Non perché sia il primo o l’unico artista italiano a lavorare in un vernacolo rock: Adriano Celentano, per citare solo un esempio, ha svolto un ruolo importante come primo interprete dell’atmosfera di Elvis per il pubblico italiano. Ma fu Vasco che, a partire dalla fine degli anni ’70, ha messo in forma di canzone la rabbia, la lussuria, la disillusione e i pensieri antisociali blasfemi e proibiti che non si dovrebbero esprimere in pubblico, accompagnandoli con la chitarra elettrica e li ha trasformati in quel tipo di musica che non puoi cantare senza urlare. È stato Vasco a ostentare un gusto impenitente per l’eccesso, che non ha esitato a cantare in modo schietto sull’abuso di sostanze e sulle emozioni da cui rappresenta una via di fuga. Quando i fan di Vasco vanno a vederlo, non si limitano ad ascoltare musica, ma partecipano all’espressione collettiva di una visione del mondo. Uno che vede e dà voce a tutte le ragioni per essere provocatoriamente, cinicamente autodistruttivo, ma che non sfocia mai nel nichilismo. Perché per quanto ci provi, non può eliminare il sincero desiderio che la vita sia effettivamente all’altezza delle sue promesse. Vasco scandaglia da entrambi i lati quella tensione, ed è per questo che in quello spettacolo di Modena poteva gridare dal palco “L’amore sopra la paura!” senza che sembri una banalità sdolcinata.
È stato Vasco a dare alla cultura pop italiana la sua risposta a “My Generation” degli Who, ed è una risposta eccellente. Laddove Pete Townshend ha alzato un dito medio con esuberanza, Vasco fornisce un manifesto in piena regola. Invece di limitarsi a lamentarsi del fatto che “le persone cercano di umiliarci”, enuncia ogni articolo nella litania di lamentele, paure e condiscendenza rivolte alla sua generazione e con aria di sfida li adotta come distintivi d’onore:
Siamo solo noi
che andiamo a letto la mattina presto
e ci svegliamo con il mal di testa
siamo solo noi
che non abbiamo vita regolare
che non ci sappiamo limitare
siamo solo noi
che non abbiamo più rispetto per niente
neanche per la mente
siamo solo noi
quelli che poi muoiono presto
quelli che però è lo stesso
Proprio come tutti i fan degli Who sanno cosa significa realmente la fricativa allungata in “Why don’t you all ffffff…..ade away”, nelle esibizioni dal vivo non è insolito sentire Vasco e i suoi fan fornire spontaneamente il testo aggiuntivo essenziale (ora standard ma non presente nella registrazione originale): “Poi fatti i cazzi tuoi!”
Vasco ha lasciato il segno per la prima volta nella coscienza nazionale in vero stile rock & roll: esibendosi come una bomba in modo spettacolare per due anni consecutivi al Festival di Sanremo. Nel 1982 arrivò ultimo con il brano “Vado al Massimo”, un inno all’eccesso in chiave reggae. Il messaggio era esplicito: non sono qui per assecondare le vostre norme, sono qui per violarle e vedere cosa succede. L’anno successivo tornò con una performance notoriamente inebriata di “Vita spericolata“. E se di nuovo non convinse la giuria, vinse di fronte al suo pubblico: la canzone è diventata la sigla di chiusura di molti suoi concerti, esprimendo la tensione tematica al centro della musica di Vasco. I verbi volitivi alla prima persona singolare sono tutti desideri sfacciati, eppure cantati con una malinconia contemplativa che smentisce la stravaganza delle richieste.
Voglio una vita spericolata
voglio una vita come quelle dei film
voglio una vita esagerata
voglio una vita come Steve McQueen
voglio una vita che non è mai tardi
di quelle che non dormi mai
voglio una vita, la voglio piena di guai
Ciò che vuole Vasco è ciò che vogliamo tutti: fuggire. Fuga dalla banalità, dalla prevedibilità, dalla costrizione. Ma non è solo fuga: ancora più importante, è la legittimazione. La sensazione che se tutti (me compreso) sono entusiasti delle mie imprese, allora la mia vita ha valore. Che è di per sé una sorta di fuga. Ma Vasco non è così ingenuo da presumere che la vita che invoca sarebbe davvero appagante, e non è così superficiale da lasciare che questi dubbi scivolino senza affrontarli. Appena il desiderio viene verbalizzato, il testo inizia a metterlo in discussione:
E poi ci troveremo come le star
a bere del whisky al Roxy bar
oppure non c’incontreremo mai
ognuno a rincorrere i suoi guai
ognuno col suo viaggio, ognuno diverso
e ognuno in fondo perso
dentro i fatti suoi
Diciamo che tutti abbiamo vissuto quella vita elettrizzante. Dove ci porta? C’è spazio per l’amicizia, per i legami? Ci riuniamo davvero tutti dopo davanti a un drink per crogiolarci con soddisfazione nella nostra reciproca celebrità? Oppure perdiamo completamente i contatti, ciascuno isolato e perso nella propria narrativa egoistica e nelle proprie questioni meschine? La vita spericolata è davvero una risposta, o solo una distrazione momentanea che non curerà il malcontento che ci porta a desiderarla? La canzone non pretende di fornire alcuna risposta. Il cantante è perseguitato dai suoi dubbi, ma vuole comunque ciò che vuole. La canzone è ancora più rilevante oggi, quando i social media rendono facile per tutti proiettare l’immaginario superficiale di un’esistenza affascinante. Guardami, sto vivendo il sogno. Se ottengo abbastanza “Mi piace” potrei anche crederci per un po’. Vasco è stato il primo a sottolinearlo, quando al concerto di Modena ha aggiornato la frase “dentro i fatti suoi” modificandola in “dentro il suo Facebook”.
Questa tensione pervade tutta la musica di Vasco e fornisce la chiave del suo fascino duraturo. Da un lato, asseconda fino in fondo gli impulsi rock & roll per eccellenza del dissoluto, del ribelle e del blasfemo. Fa del suo stile di vita da “fegato spaccato” un umorismo sfacciato (“Fegato Spappolato“), strombazza il suo gusto per le “Sensazioni forti” e suggerisce sfacciatamente che non c’è molta differenza tra una vita di abuso di droghe e una spesa acquistando nella pappa di slogan pubblicitari commerciali. (“Bollicine”) (Immaginate un ibrido tra “Cocaine” di Clapton e “Step Right Up” di Tom Waits). Egli respinge coloro che accettano un mondo insensato attraverso la fede in un vago aldilà, idolatrando invece coloro che puntano i piedi e dicono “No…io non ci sono…io non mi muovo” (“C’è chi dice no”). Il suo malcontento nei confronti della religione lo porta al punto di mettere Dio sul banco degli imputati, pretendendo spiegazioni e pagamento per una vita di cui non capisce lo scopo, mentre assegna acidamente la difesa della divinità a “voi buoni cristiani”. (“Portatemi Dio”). È tutta iconoclastia gloriosamente intransigente, ma ciò che la salva dal diventare banale è che in ogni momento Vasco è ugualmente pronto a sovvertire la propria posa ribelle.
Puoi vederlo presto nel massetto classico e controverso, “Colpa d’Alfredo”. Qui Vasco dà voce al livido risentimento di un giovane nei confronti dell’oggetto dei suoi affetti che lo prende in favore di un ricco straniero. Incolpa l’amico Alfredo per averlo distratto in un momento cruciale, incolpa un altro ragazzo, in discoteca, per aver usato la sua vistosa macchina e caricare una ragazza dopo l’altra, e infine accusa la ragazza di essere un’opportunista che cerca solo denaro e che non riconosce il valore sincero di lui che la ama. Anche se la canzone contiene frasi che potrebbero essere lette come razziste (lo straniero è africano), xenofobe o misogine, ciò significherebbe non cogliere il punto (e come mostro di seguito, Vasco è quanto di più lontano si possa ottenere dalla misoginia). “Colpa d’Alfredo” non è un grido di battaglia per il bigottismo; è il ritratto di qualcuno che si sta chiaramente abbandonando a un illusorio spostamento di colpa per la propria delusione. Non ucciderà davvero Alfredo. Non avrebbe davvero portato la ragazza in America. Non è davvero sicuro di amarla abbastanza da sposarla. E soprattutto, nonostante le sue insistenti affermazioni contrarie, non è proprio convinto che se non fosse stato per la sua rivale lei gli avrebbe detto di sì. È tutta spavalderia, che lo protegge dal confronto con il proprio fallimento. A dire il vero, la canzone drammatizza il tipo di risentimento egoistico che potrebbe, se coltivato, portare qualcuno in oscuri vicoli politici. Ma Vasco non sta macerando in quel vicolo cieco emotivo. Lo sta riconoscendo come reale e lo sta sfogando.
Vasco il cercatore di significato
Vale la pena ascoltare Vasco perché non evita di porsi le difficili domande che solo un iconoclasta incrollabilmente onesto penserebbe di porre: una volta che ti liberi da tutte le convinzioni che da bambino trovavi così frustranti e limitanti, ti sarai liberato anche dalle cose per cui valeva la pena di vivere? Se siamo così liberi adesso, da cosa siamo liberi esattamente?
Liberi liberi siamo noi
però liberi da che cosa
chissà cos’è, chissà cos’è.
Finché eravamo giovani
era tutta un’altra cosa
chissà perché, chissà perché.
Forse eravamo stupidi
però adesso siamo cosa
che cosa che, che cosa se
quella voglia, la voglia di vivere
quella voglia che c’era allora
chissà dov’è, chissà dov’è.
Ed eccone un altro, ancora più crudo: sei davvero sicuro che sia stata la vita a deluderti con false promesse di verità e bellezza, o forse hai tradito la vita arrendendoti troppo facilmente? È la paura di dover emettere quest’ultimo verdetto su te stesso che ti consegna a continuare a vivere, continuare a sperare, continuare a lottare contro ogni previsione, indossando il sorriso coraggioso che maschera il desiderio di spazzare via tutto e chiudere.
Vivere (vivere)
anche se sei morto dentro
vivere (vivere)
e devi essere sempre contento!
vivere (vivere)
è come un comandamento
vivere o sopravvivere
senza perdersi d’animo mai
e combattere e lottare contro tutto contro
oggi non ho tempo
oggi voglio stare spento
Quando Vasco e i suoi fan cantano insieme questa cosa in uno stadio, sono essenzialmente in chiesa. Non una chiesa cattolica, certo. Ma stanno facendo ciò che dovrebbe essere la chiesa: condividere un confronto catartico comunitario sul nodo al centro dell’esistenza umana. La vita fa male. Ma in qualche modo la bellezza di cantare quanto fa male riecheggia la promessa di bellezza che non ci permetterà di rinunciarci.
Vasco cultore del femminile universale
Come la maggior parte del rock (o della musica pop, o dell’arte in generale), il rock di Vasco riguarda in gran parte le relazioni tra uomini e donne. La primissima traccia del suo album di debutto del 1978 è una spietata analisi di una relazione andata irrimediabilmente male (“La nostra relazione”). Ma mentre le relazioni ritratte da Vasco sono spesso combattive, le canzoni di solito non sono così cupe. In effetti, alcuni dei suoi migliori sono decisamente divertenti, come quando cerca disperatamente di adattare le sue passioni animali alla sfuggente sensibilità femminista (“Io non so più cosa fare”), o si prende gioco affettuosamente delle astuzie manipolative della sua ragazza, come in “Va bé (Se proprio te lo devo dire)”. Naturalmente, Vasco ha anche l’intera panoplia rock di sfrontate acclamazioni (“Dimentichiamoci questa città”), fissazioni pacchiane (“Mi piaci perché”), affermazioni di dominio (“Ti prendo e ti porto via”) e celebrazioni di candida lussuria (“Rewind“), il tipo di canzoni in cui le fan donne si considerano non semplici oggetti ma partecipanti a pieno titolo, accontentando con entusiasmo la richiesta di “fammi vedere”.
Ma soprattutto, Vasco è alle prese con il problema che sta alla base di tutte le relazioni: il problema dell’onestà. Le sue canzoni hanno il tono colloquiale di qualcuno che cerca semplicemente di mantenere le cose reali. In “Va bene, va bene così”, cerca di convincere un’amante ad assumersi la responsabilità consapevole del suo ruolo nella relazione, anche se ciò significa ammettere che non le importa di lui. Essere usati onestamente sarebbe preferibile alla prevaricazione infinita. La disonestà è una malattia, terminale. Sempre potenzialmente presente e difficile da escludere come diagnosi. Può darsi che il modo migliore per trattare i sintomi sia semplicemente ridurre il consumo della sostanza che alimenta sia la malattia che l’ipocondria: parlare. (“Senza parole”)
Alla fine, però, i testi più avvincenti di Vasco sulle donne non riguardano tanto le sue relazioni con loro quanto le sue osservazioni su di loro. Non vede le donne esclusivamente come partner o avversarie sessuali; ne è affascinato come manifestazioni dell’umanità, come in “L’altra metà del cielo“. Vede le donne come persone impegnate nella sua stessa lotta: liberarsi delle bugie e delle aspettative che oscurano chi siamo veramente e vogliamo essere. Ed è profondamente consapevole che tali aspettative possono mutilare le donne ancor più di quanto non facciano gli uomini. Il suo album di debutto conteneva due canzoni che esprimevano grida parallele per l’autonomia femminile; in uno cerca di svegliare una ragazza, nell’altro difende il suo diritto a dormire.
“…E poi mi parli di una vita insieme” è un brano meno conosciuto, ma contiene un passaggio trascendente in cui Vasco esplode improvvisamente la frustrazione nei confronti della ragazza che gli fa pressioni affinché la sposi. Non perché non gli importi di lei, o perché sia necessariamente contrario al matrimonio, ma perché capisce che questa ragazza non ha idea del motivo per cui dovrebbe volerlo e nemmeno che qualsiasi altro ruolo sia concepibile per lei.
Io vorrei che tu
che tu avessi qualcosa da dire
che parlassi, di più
che provassi una volta a reagire
ribellandoti a quell’eterno incanto
per vederti lottare
contro chi ti vuole
così innocente e banale donna
donna sempre uguale
donna per non capire donna
donna per uscire
donna da sposare
Ma subito dopo averla accusata di essere passiva, si scusa. Sa che non è colpa sua. Dall’altra parte abbiamo “Jenny è pazza”. Non siamo sicuri esattamente di cosa sia successo a Jenny, sappiamo solo che sembra aver perso la voglia di partecipare alla vita: “Jenny è stanca. Jenny vuole dormire”. Sembra una richiesta abbastanza semplice. Forse ha bisogno di tempo per elaborare qualcosa, di spazio e di un amore poco impegnativo per un po’. Ma non è possibile. Non può restare, vorrebbe solo dormire. Rovina il morale delle persone, vedi. Se non parteciperà, dovrà essere mandata via da qualche parte. La cureranno. Un giorno. Almeno se è lontana possiamo dirci che sta bene e non inquietarci nel vederla. O rimproverato dalla domanda su cosa le è successo. Più facile etichettarla semplicemente come pazza: Jenny è pazza. Sempre al centro della canzone c’è un momento incandescente in cui Vasco si scaglia contro chi lancia questo appello:
Io che l’ho vista piangere
di gioia e ridere
che più di lei la vita
credo mai nessuno amò
io non vi credo
lasciatela guardare
voi non potete
Quindi qui, nel primo materiale di Vasco, lo troviamo inveire contro due norme che bloccano le ragazze a cui tiene. O forse è solo una la norma sociale contro cui Vasco si scaglia: le donne non devono mettere a disagio gli uomini scompigliando l’ordine domestico che dovrebbero coltivare e adornare, non metterlo in discussione, e non venir meno al dovere di far stare bene gli altri.
Non c’è da stupirsi, quindi, che la canzone più iconica di Vasco (presente nel suo secondo album) sia un tenero ritratto della cosa più puramente bella che possa immaginare: una ragazza all’ultimo momento prima che il mondo cerchi di trasformarla nella sua idea di donna. Una ragazza che non ha un senso di autocoscienza debilitante, che non ha la minima idea che dovrebbe vestirsi per attirare l’attenzione o svalutare la sua mente o dissimulare i suoi sogni. L’immagine è preziosa anche per la sua evidente precarietà. In questo momento è sola nella sua stanza con tutto il mondo fuori, ma da un momento all’altro il mondo verrà a bussare. Batti le palpebre, e la tua fresca “Albachiara” è già diventata “Silvia”: prova il trucco e osserva il suo corpo allo specchio. Poi è “Susanna”, che va a ballare con il suo vestito colorato e il suo sorriso suggestivo. Il terzo album di Vasco inizia con un richiamo ad Albachiara, ma prosegue con una canzone in cui cerca di ottenere una versione più adulta di lei per mettere da parte quegli studi che lei ama ancora per prestargli più attenzione. (“Non l’hai mica capito”). Con un po’ di fortuna, riuscirà a tenere il mondo fuori e a diventare Giulia. Brava Giulia, che sceglie la vita che vuole, e ha la risata risanatrice di chi non trasforma i propri errori in autocommiserazione. Vedendola, Vasco rimane paralizzato da un’ammirazione sbalordita; il suo primo pensiero non è che la vuole ma che vuole vivere come lei. Si offre umilmente, non come protettore di un mondo che ha già conquistato, ma come un aspirante compagno senza pretese di superiorità.
Ma Giulia è una razza rara, e la maggior parte delle ragazze non sfugge così completamente alle trappole del mondo. Prendi “Gabri”, l’adolescente che fa a un uomo più anziano un regalo che sa di non meritare. Gabri potrebbe interpretare la situazione come un gioco di potere e lasciarsi coinvolgere per usarlo, per giocare con gli uomini a sua volta. (“Brava”). Potrebbe addirittura diventare l’esatto opposto di Albachiara, l’insopportabile regina del club che ora vive solo per essere al centro dell’attenzione, anche se questo significa ignorare ciò che la gente dice alle sue spalle (“La strega”). Ma quelle sono solo versioni femminili della vita spericolata. In realtà non nutriranno la sua anima fragile, né la salveranno dalla sensazione che la vita stia andando avanti e portandola sempre più lontano dalle cose semplici che prima la soddisfacevano. (“Anima fragile”). Questo potrebbe essere ciò che porta la donna in una relazione come quella di “Va bene così”. O questo. Alla fine, però, tutta questa turbolenza scomparirà. Alla fine si ritroverà oltre la durata effimera di ciò che la società valorizza nelle donne. Alla fine diventerà “Sally”. Alla fine lo diventiamo tutti.
Se “Albachiara” è la canzone più famosa di Vasco, “Sally” è il suo capolavoro. È attraverso questo straziante ritratto di una donna anziana che Vasco, la spericolata rockstar, intravede finalmente la risposta che una volta cercava di intimidire da Dio. Sally si è lasciata alle spalle tutti i turbolenti piaceri sensuali ed emotivi che ci distraggono dal problema dell’esistenza. Quelle distrazioni hanno un prezzo e Sally lo ha pagato per intero. Lei è nell’aldilà della vita spericolata. Ora cammina per strada da sola e vede la vita per quello che è. Un brivido fugace. Una fune sospesa sulla follia. Non pensa a nulla ed è indifferente alle persone che incontra. Potrebbe essere un’immagine di insopportabile desolazione, di inconsolabile rimpianto per una gioia irreparabile. Ma Sally ha compreso qualcosa. La sua indifferenza non è un noioso esaurimento. I suoi passi sono leggeri. Il picchiettio della pioggia attorno a lei è come il suono del fiume di Siddhartha: una sensazione di essere silenziosamente beato che non richiede spiegazioni o giustificazioni. Sally ha un momento di satori. Il dolore e il senso di colpa svaniscono e la vita è proprio quello che avrebbe dovuto essere. La ragazza all’inizio aveva ragione. Non c’era niente di cui vergognarsi, non se ne deve vergognare.