Di Pasquale Scialò (Università Suor Orsola Benincasa, Napoli)
Enzo Gragnaniello (Napoli 20 ottobre 1954) è un cantautore contemporaneo radicato nei luoghi e nei simboli di Napoli. Il suo video Lo chiamavano vient’ ’e terra del 2019 lo ritrae mentre attraversa spiagge deserte, vicoli stretti, portici, portoni, scale, chiese antiche, cappelle votive, processioni rituali legati al culto popolare delle Madonne. Alcuni suoi album, come Salita Trinità degli Spagnoli (1985), prendono il nome di strade della città dove l’autore risiede da sempre.
Agli inizi degli anni Sessanta, alle elementari ha come compagno di classe un adolescente paffuto con occhi penetranti e gentili, ordinato e non scugnizzo come lui: è Pino Daniele. I due ragazzi condividono ben cinque anni scolastici con esperienze comuni che proseguiranno nel tempo.
Dieci anni dopo inizia la sua attività musicale da autodidatta coniugando l’interesse per il folk e la canzone politica. Entra a far parte del gruppo musicale i Banchi nuovi e partecipa alle lotte dei “disoccupati organizzati”, impegnati nella ricerca di un lavoro stabile con salario garantito. Al loro fianco crea parodie modificando i testi di canti tradizionali del sud d’Italia e di canzoni di successo come Yellow submarine dei Beatles, il cui ritornello si trasforma in un uno slogan scandito nei cortei cittadini («’O lavoro, ’o lavoro ai Banchi nuovi»; «Il lavoro, il lavoro ai Banchi nuovi»). Inizia a scrivere nel 1976 i primi brani originali, tutt’ora inediti, dal contenuto sociale come «’A sciorta d’o disoccupato» («La fortuna del disoccupato») in cui si raccontano le vicissitudini per la ricerca di un posto di lavoro e ’O scippo, la confessione di un giovane proletario che ruba per sfamare i propri figli («Io nun cerco ’a carità/ voglio sputà ‘nfaccia a chesta società» «Io non cerco l’elemosina/ voglio sputare in faccia a questa società»). Su questi temi sociali nel 1983 realizza il suo primo lavoro discografico che contiene il brano «Cardone», la storia vera di un barbone alcolista arrestato dopo avere rubato una porta per darle fuoco e proteggersi dal freddo.
Dal 1985 si conclude una prima fase creativa dalle forti tinte politiche con canzoni “antagoniste” che raccontano delle diseguaglianze sociali, intonate con un timbro vocale graffiante e rauco. A questa segue una dimensione più lirica con il brano «’E ccriature» che affronta il tema dell’infanzia delle fasce a rischio della città, quella stessa vissuta anni addietro dallo scugnizzo Gragnaniello.
Nel 1991 arriva il suo primo successo nazionale con la canzone «Cu mme», cantata da Mia Martini e Roberto Murolo: un componimento coinvolgente con una strofa narrativa e un ritornello modulante in cui l’autore si ispira al mare come fonte di conoscenza profonda e di spiritualità:
Scinne cu mme, ‘nfunn’’o mare a truvà
chello ca nun tenimmo ccà.
(Scendi con me in fondo al mare per trovare
quello che qui non abbiamo.)
Il mare e il vento sono due elementi naturali ricorrenti in molte canzoni, come in “Sott’ ’o mare” (“Sotto al mare”), insieme ad altri numerosi aspetti della vita contemporanea: dall’inquinamento alla multietnicità del villaggio globale, come in «Veleni, mare e ammore» del 1992.
La sua attività registra anche l’interpretazione di brani tradizionali napoletani («Posteggiatore abusivo», 1997) e la presenza nel 1999 al Festival di Sanremo, in coppia con Ornella Vanoni, con «Alberi», un brano bilingue, italo-napoletano, con atmosfere pop.
Svolge intensa attività musicale dal vivo accompagnandosi sempre con la sua inseparabile chitarra, alla quale dedica un brano colmo di riconoscenza:
Ringrazio ’a chitarra
ca me fa sunnà e nun me fa pensà.
Ringrazio ’a chitarra
ca me sta vicino e nun me lasse maie.
(Ringrazio la chitarra
che mi fa sognare e non mi fa pensare.
Ringrazio la chitarra
che mi sta vicino e non mi lascia mai.)
Gragnaniello non abbandona mai il rapporto con le proprie radici– non a caso Radice è il titolo sia di un suo album del 2011 che di un film, che lo vede protagonista, per la regia di Carlo Luglio– dove rincontra ancora la canzone folk e politica insieme a Dario Fo e le Nacchere rosse con canti sociali e un nuovo brano dal titolo «Tammorra ‘a sunagliera».
La sua produzione matura adotta un principio costruttivo per sottrazione che tende all’essenzialità sia sul piano della costruzione che dell’arrangiamento. La forma-canzone scelta è spesso quella strofica rinunciando in qualche caso al ritornello, come per «L’erba cattiva».
Altrove l’invenzione assume il carattere di una salmodia, un canto parlato dal tono intimo, quasi religioso, come nella strofa del brano autobiografico «Lo chiamavano vient’ ’e terra», contenuta nell’omonimo album, insignito della prestigiosa Targa Tenco, in cui rievoca tappe del proprio vissuto.
Lo chiamavano vient’ ’e terra
addò passavo careveno ‘nterra
tutt’’e bidune r’’a spazzatura
for’a sti vascie for’’e purtune.
(Lo chiamavano vento di terra
dove passavo cadevano a terra
tutti i bidoni della spazzatura
fuori a “bassi” fuori ai portoni.)
Un vissuto che lo lega a Napoli e alle culture del Mediterraneo in modo profondo, estraneo alle mode, come in Neapolis mantra del 1998, in cui l’autore perlustra sonorità ancestrali con un canto senza parole fatto di soli fonemi. L’identità della sua produzione è intimamente legata alle potenzialità del suo “corpo vocale” che rinvia a una vocalità en plein air capace di coniugare elementi diversi: un timbro antico con uno moderno, un tono tanto carezzevole quanto aggressivo, un’alternanza tra canto e parlato.
L’ultimo suo singolo, «Fa caldo» scritto nel 2020 in pieno Covid, è un’esortazione a sottrarsi alle passioni superficiali a favore di sentimenti profondi.