Bisogna che lo affermi fortemente
che, certo, non appartenevo al mare
anche se dèi d’Olimpo e umana gente
mi sospinsero un giorno a navigare.
E se guardavo l’isola petrosa,
ulivi e armenti sopra a ogni collina,
c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa,
c’era l’anima mia che è contadina!
Un’isola d’aratro e di frumento
senza le vele, senza pescatori,
il sudore e la terra erano argento,
il vino e l’olio erano i miei ori.
Ma se tu guardi un monte che hai di faccia,
senti che ti sospinge a un altro monte;
un’isola col mare che l’abbraccia
ti chiama a un’altra isola di fronte.
E diedi un volto a quelle mie chimere,
le navi costruii di forma ardita,
concavi navi dalle vele nere
e nel mare cambiò quella mia vita.
E il mare trascurato mi travolse,
seppi che il mio futuro era sul mare
con un dubbio però che non si sciolse:
senza futuro era il mio navigare!
Ma nel futuro trame di passato
si uniscono a brandelli di presente,
ti esalta l’acqua e al gusto del salato
brucia la mente.
E ad ogni viaggio reinventarsi un mito,
a ogni incontro ridisegnare il mondo
e perdersi nel gusto del proibito,
sempre più in fondo.
E andare in giorni bianchi come arsura,
soffio di vento e forza delle braccia,
mano al timone, sguardo nella pura
schiuma che lascia effimera una traccia.
Andare nella notte che ti avvolge
scrutando delle stelle il tremolare,
in alto l’Orsa è un segno che ti volge
diritta verso il nord della Polare.
E andare come spinto dal destino
verso una guerra, verso l’avventura,
e tornare contro ogni vaticino
contro gli dèi e contro la paura.
E andare verso isole incantate,
verso altri amori, verso forze arcane,
compagni persi e navi naufragate
per mesi, anni, o soltanto settimane.
La memoria confonde e dà l’oblio,
chi era Nausicaa, e dove le sirene?
Circe e Calypso perse nel brusio
di voci che non so legare assieme…
Mi sfuggono il timone, vela, remo,
la frattura fra inizio ed il finire,
l’urlo dell’accecato Polifemo
ed il mio navigare per fuggire.
E fuggendo si muore e la mia morte
sento vicina quando tutto tace
sul mare, e maledico la mia sorte,
non trovo pace…
Forse perché sono rimasto solo,
ma allora non tremava la mia mano
e i remi mutai in ali al folle volo,
oltre l’umano.
La via del mare segna false rotte,
ingannevole in mare ogni tracciato,
solo leggende perse nella notte
perenne di chi un giorno mi ha cantato…
Donandomi però un’eterna vita
racchiusa in versi, in ritmi, in una rima,
dandomi ancora la gioia infinita
di entrare in porti sconosciuti prima.
Odysseus
Translated by:
Francesco Ciabattoni
I should state this with strength:
I certainly did not belong at sea
even though the God of Olympus
one day set me to sail off
and if I looked an my rocky island,
olive groves and cattle over every hill,
my heart was into every one of those things,
as was my soul, the soul of a farmer,
an island of plough and wheat
no sails, no fishermen,
people’s sweat and land were the silver
wine and oil were my gold.
But if you look at a mountain before you
You can feel it pushes to to another mountain;
an island with its circling sea
calls you to another island beyond.
So I gave a face to those chimeras,
I built ships in bizarre shapes,
hollow vessels with black sails
and changed my life into a seaman’s.
And the sea I had till then neglected overwhelmed me,
I instantly knew my future was at sea
but a doubt I could not solve:
my sailing was without a future.
But in the future, threads of the past join
with fragments of present,
water excites you and the taste of the salt
burns your mind
and in every journey you will reinvent a myth
at every encounter you will redraw the world
and lose yourself in the taste of the forbidden
deeper and deeper.
I went, on burning thirst-white days,
wind blowing and arms rowing,
hand on the helm, eyes into the pure
foam, that leaves an ephemeral trail,
I went in the night that wrapped me,
observing the shivering stars
Ursa major is a sign that points you,
straight to the North Star.
And I went, as if pushed by fate
to a war, to adventure
I returned against all odds
Against the gods and against fear.
I went towards the enchanted islands,
to other loves, to arcane forces,
I lost my friends and my ships wrecked,
for months, years, or even just weeks.
Memories become confused and fall into oblivion,
Who was Nausicaa and where were the sirens?
Circes and Calypso are lost in the rustle
of voices I cannot connect together.
Helm, sails, oars are escaping me now
the break between beginning and end,
the howl of blinded Polyphemus
and my sailing as a form of escaping.
And by escaping one dies and I can feel
my death nearing when all is silent
on the sea, and I curse my fate,
I find no rest.
Perhaps because I’ve remained alone,
but back then my hand did not tremble
and I turned my oars into wings for a mad flight
beyond what is human
The way of the sea marks false routes,
at sea every path is deceptive,
only legends lost in the perennial night
of he who once sang me
and gave me eternal life
enclosed in verses, rhytms, rhymes,
he gave me the infinite joy
to enter unknown before worlds.
Nato a Modena nel 1940, Francesco Guccini è uno dei cantautori italiani più conosciuti. La sua carriera abbraccia circa 50 anni, durante i quali ha registrato 16 album originali e si è esibito in innumerevoli concerti. Sebbene non si esibisca più, la sua voce caratteristica e le celebri ballate lo rendono uno dei cantanti folk più iconici della sua generazione. Nel 2001, Guccini si è trasferito da Bologna a Pàvana, il suo villaggio ancestrale sugli Appennini, dove, tra il 2011 e il 2012, ha trasferito i suoi musicisti e un intero studio di registrazione per incidere il suo ultimo album (Ultima Thule) e girare un documentario su questo sforzo (La mia Thule). Nello stesso anno, sempre a Pàvana, annunciò che non avrebbe più fatto concerti e album, e si ritirò dalla scena musicale.
La vita va avanti e l’imponente cantautore concentra ora la sua ispirazione artistica sulla scrittura di romanzi gialli (con Loriano Macchiavelli) e raccolte autobiografiche. Prima di ritirarsi dalle scene aveva già scritto un’importante trilogia autobiografica: Cròniche epafàniche (1991), Vacca d’un cane (1993) e Cittanòva blues (2003). In questi libri, usa un idioletto che colloca la lingua italiana nel contesto di diversi paesaggi sonori dialettali, a seconda di dove sono ambientati i libri. Cròniche epafàniche, dedicata alla sua infanzia in Appennino, ha conquistato i lettori per la facilità narrativa e il forte immaginario, determinato dalle sue originali scelte linguistiche. Ad esempio, in un brano dedicato al suo passatempo d’infanzia, la pesca nel torrente locale, scrive:
è più facile prenderli, i pesci, con le mani, quando il gorello dello sfioratore del botàccio va in secca, e nelle pozétte qualche pesce rimane: una volta, quando c’era più pesci, usavano anche le nasse di stroppe che ora sono rinsecchite e inerti nel Maganzino. (17)
L’importanza di Guccini come cantautore nella storia della musica italiana non può essere sopravvalutata. Le sue ballate mescolano etica e poetica, satira e indignazione, passato e presente.
Anche chi non ha familiarità con il suo vasto corpus di opere si è imbattuto in alcune delle prime canzoni di Guccini, come “Dio è morto” (Folk Beat n. 1, 1967), ispirato nel titolo a Così parlò Zarathustra di Nietzsche e nel testi di “Howl” di Allen Ginsberg:
Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente cercare il sogno che conduce alla pazzia alla ricerca di qualcosa che non si trovano
Un’altra delle sue famose ballate è “Auschwitz”, nota anche come “La canzone del bambino nel vento”, scritta dopo aver letto un libro autobiografico di Vincenzo Pappalettera intitolato Tu passerai per il camino:
Son morto che ero bambino sono morto con altri cento. Passato per il camino e adesso sono nel vento.
Guccini è l’autore de “L’Avvelenata” (Via Paolo Fabbri, 43, pubblicato nel 1976) uno dei brani più scurrili della storia della musica cantautorale italiana. Costituisce un potente atto di indignazione, costellato di parolacce. Se all’inizio sembrava scandaloso, in seguito è diventato un simbolo dell’intensità delle proteste personali che hanno caratterizzato gli anni ’70.
Guccini ha sempre affermato di essere più anarchico che comunista. “La locomotiva” (Radici, 1972), con cui concludeva tutti i concerti, è una delle sue canzoni distintive. Si tratta di una lunga ballata anarchica su un ingegnere ferroviario, Pietro Rigosi, che, alla fine dell’Ottocento, cercò di scagliare una locomotiva contro un treno passeggeri, per protestare contro le difficili condizioni di vita dell’epoca.
Nel suo canzoniere Francesco Guccini invia un forte messaggio etico, poetico, politicamente impegnato e spesso satirico. Per tutti questi motivi, Dario Fo una volta lo chiamò “la voce del movimento”. Le influenze sulla sua musica e sui suoi testi sono Jacques Brel e Georges Brassens, Bob Dylan e Paul Simon, così come Édit Piaf.
Per quanto riguarda la sua iconografia, era famoso per esibirsi con una bottiglia di vino sotto la sedia. “Al rosso saggio chiedi i tuoi perché”, scrive in “Un altro giorno è andato” (Un altro giorno è andato / Il bello, 1968). Nelle sue liriche il vino è compagno di molte notti; il “saggio rosso” che menziona in quella canzone è infatti una metafora del vino rosso.
Francesco Guccini è probabilmente l’unico cantautore che ha fatto del proprio indirizzo privato il titolo di un suo album. Via Paolo Fabbri, 43, a Bologna, è diventato un pellegrinaggio necessario per chi ammira la produzione poetica e musicale del cantautore.
La sua poesia è ispirata dalla sua vasta conoscenza letteraria, che traspare in innumerevoli riferimenti, da Carlo Collodi ad Alessandro Manzoni, da Jack Kerouac a John Dos Passos, da Guido Gozzano a Carl Barks. La profondità e il valore letterario del suo corpus di opere gli sono valsi un gran numero di riconoscimenti, tra cui, nel 1992, il prestigioso Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale per la sezione “versi in musica”.
Gozzano in particolare è stato molto influente per i testi più intimi di Guccini. L’autore, infatti, è debitore al crepuscolarismo sia nelle sue atmosfere che nelle scelte stilistiche. Ad esempio, la famosa canzone “Incontro”, (Radici, 1972) che descrive una cena, dopo tanti anni, con una compagna di liceo, Guccini menziona che le posate avevano il colore della nostalgia (stoviglie color nostalgia). Si può sentire, in questa canzone romantica e nostalgica, un riferimento alla lunga poesia di Gozzano “Signorina Felicita”, (I colloqui, 1911) in particolare un riferimento agli occhi di Felicita, descritti da Gozzano come posate-blu (“azzurri di un azzurro di stoviglia”). Il prestito più evidente da Guido Gozzano è, tuttavia, l’adattamento di Guccini di “La più bella”, una poesia che Guccini ha musicato con il titolo “L’isola non trovata“.
In una recente intervista (per il talk show di Diego Bianchi, Propaganda live) Guccini lamenta la scomparsa di chi popolava le “sue” montagne, e quindi l’annacquamento di quella particolare cultura, e delle sue stesse radici. La ricerca delle proprie radici è uno dei temi principali del suo canzoniere, in particolare nel suo album del 1972, Radici. La canzone che ha dedicato a suo zio Amerigo, emigrato negli Stati Uniti e tornato a Pàvana solo da vecchio, esemplifica la sua attenzione per la storia della sua famiglia.
Il tema di Pàvana come locus amoenus dove vengono risolte molte delle contraddizioni della vita è uno dei temi più duraturi dei suoi testi. Il suo ultimo album, Ultima Thule (2012), registrato all’interno del mulino che appartiene alla sua famiglia da diverse generazioni, è pieno di ricordi d’infanzia, incluso il suono della ruota del mulino che continuava a macinare giorno e notte quando era bambino.
Un altro tema importante nelle produzioni di Guccini è il tempo. Nella canzone che presta il titolo al suo ultimo album, “Ultima Thule”, si lamenta del passare del tempo, che ha posto fine alle scappatelle di predoni con i suoi più cari amici musicisti:
Io che tornavo fiero ad ogni porto dopo una lotta, dopo un arrembaggio, non son più quello e non ho più il coraggio di veleggiare su un vascello morto.
Dov’è la ciurma che mi accompagnava e assecondava ogni ribalderia? Dove la forza che ci circondava? Ora si è spenta ormai, sparita via.
(“Ultima Thule”, Ultima Thule, 2012)
Non dovremmo preoccuparci di questa malinconica ultima canzone. Il buen retiro di Guccini in Appennino è meta di appassionati e studiosi. Non sembra nemmeno preoccuparsi delle frequenti interruzioni o del suo status leggendario tra i suoi ammiratori. Nella speranza di incontrarlo un giorno a Pàvana, attendiamo con ansia il suo prossimo romanzo giallo.
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