(Bologna, 1950 – Bologna, 2018)
Di Carlo Pestelli, ricercatore indipendente
Mestiere: professore di materie letterarie in un liceo bolognese; professione: cantautore. O forse il contrario? Professione scuola, lavoro semi-borghese, rusco quotidiano, correzione delle versioni, pullman ogni mattina per Casalecchio di Reno, pagelle, scrutinii, colloqui con i parenti… e musicista per mestiere, oltre che per vocazione: dischi, prove del suono, concerti, cene a ore tarde, notti mal dormite. Non so. In un celebre libro di Brodskij, Fondamenta degli incurabili, l’autore distingue il sé scrittore, mestiere, da una petulante mise accademica, la professione.
Claudio Lolli, (Bologna, 1950-2018) è stato uno dei cantautori protagonisti degli anni Settanta italiani, sia sul piano compositivo, per gli elementi di spiccata novità formale nel linguaggio dei testi, sia su quello personale, per il modo artigianale, alternativo, col quale ha gestito il suo altalenante consenso. Cresciuto ascoltando Beatles, Bob Dylan, l’amatissimo Jacques Brel, ma anche i Cantacronache di Fausto Amodei e Sergio Liberovici, oltre a Fabrizio De Andrè, Piero Ciampi, —particolarmente apprezzato—, e Francesco Guccini, deve proprio a quest’ultimo la partecipazione a sessions informali in locali storici di Bologna, come l’Osteria delle dame: siamo all’inizio degli anni Settanta, ed è qui che Lolli viene notato da dirigenti discografici della EMI che gli offrirono subito un contratto.
“E quanto amore sprecato negli autobus tra gente che potrebbe volersi bene?” sono le prime parole dell’ultima, accorata thule di Claudio Lolli contenuta in Il grande freddo, album-coronamento di un’intensa carriera discografica e abbastanza fuori dagli schemi. Il disco gli valse il premio Tenco (edizione 2017) come miglior album. C’è sicuramente qualcosa di artistico nel riuscire a far collidere dati biografici ed esiti artistici; e Lolli c’è riuscito dall’inizio alla fine, un po’ per volere suo e un po’ suo malgrado. Nel senso che basterebbero i titoli dei primi tre dischi: Un uomo in crisi (1973), Canzoni di rabbia (1975), Aspettando Godot (1982), e il titolo del conclusivo Il grande freddo a intercettarne poetica e filo conduttore in un solo universo, passionale e rabbioso, e prim’ancora molto sincero. Le canzoni di rabbia solitaria e collettiva, manifesto dei tumultuosi Settanta, composte spesso di getto da un uomo in crisi che prima di arrendersi alla disillusione definitiva del Big Chill, all’irriconoscibilità di un sogno generazionale ormai svaporato, aspetta malinconicamente Godot, con un riferimento letterario preso a prestito da un cantore dell’utopia, quel Samuel Beckett anfibio tra due lingue e che certo non scriveva con la pretesa o la premura di farsi capire per forza. Il solco che divide Lolli dai predecessori di lui poco più vecchi, come Paolo Pietrangeli o i conterranei Pierangelo Bertoli e Francesco Guccini, sta proprio nel messaggio esplicito di quelli, più comunicatori di lui e per conseguenza più visibili, e il più schivo Claudio Lolli che aderisce sì in tutta schiettezza al Settantasette bolognese e alla temperie ipercreativa e dissacrante di quel periodo, ma con un di più di lirismo intimista e atemporale. Lolli è un tutt’uno con le radio libere, decisive nel farlo conoscere al grande pubblico (naturalmente la bolognese Radio Alice; ma anche l’attivista Peppino Impastato, poi assassinato dalla mafia, lo ammirava molto e i palermitani che si sintonizzavano su “onde pazze” di Radio Aut poterono fruirne le canzoni), con i fumettisti freak dell’epoca come l’ispiratissimo Andrea Pazienza, che gli regalò il disegno per la copertina di Antipatici antipodi (disco del 1983) e in generale con gli studenti del movimento di mezz’Italia. A questo proposito rimase celebre un concerto torinese a quattro mani dei cantautori Edoardo Bennato e Claudio Lolli nel 1977, dove il tributo incondizionato al secondo dei due, fu il contrappeso a un accanito processo all’artista napoletano, accusato dai contestatori di essere troppo succube, si direbbe oggi, del main stream. Ma Lolli fu tutt’uno anche con altre cose: la famiglia (attento padre di due figli) e la solida amicizia con pochi ma buoni copains d’abord, come il poeta Gianni D’Elia e in particolare il (suo) chitarrista Paolo Capodacqua. Ai quali è giusto aggiungere alcuni colleghi come Giampiero Alloisio e Lucio Dalla, ai quali era legato da mutua stima, e alcuni giovani artisti che a lui si sono ispirati e coi quali ha collaborato a partire dalla seconda metà degli anni ’90, come Mirco Menna, Carlo Pestelli, Enrico Capuano e soprattutto la band Il parto delle nuvole pesanti, ai quali, nel 2003, affida il riarrangiamento di Ho visto anche degli zingari felici (1976).
L’avvio di carriera è sprintoso e soprattutto precoce: cinque dischi in sei anni, tra il 1972 e il 1977, a detta di molti i lavori migliori e più rappresentativi dell’intero repertorio. Sicuramente, anche a riascoltarli oggi, sono i dischi più durevoli. L’album d’esordio, che come i tre successivi è pubblicato dalla EMI, ospita musicisti quali Ares Tavolazzi ed Ellade Bandini, ma soprattutto contiene alcune canzoni come “Borghesia,” “Michel” e “Angoscia metropolitana,” che entrano presto nell’immaginario comune di quegli anni, oltre che stabilmente nel repertorio dei live. Del 1973 è Un uomo in crisi, con testi sempre più introspettivi e lucidamente problematici; tra gli ospiti vi figura il chitarrista americano Stefan Grossman. È del 1976 invece Ho visto anche degli zingari felici, il suo album più famoso: contiene brani che descrivono l’attentato all’Italicus (“Agosto”) e la reazione della sinistra italiana, a partire dai funerali descritti in “Piazza bella piazza” (con il verso «di Leone avrei fatto senza», riferito all’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone). Per quel lavoro Lolli impose alla EMI un prezzo politico pari a 3.500 lire (circa 4 dollari, all’epoca) per ogni copia del disco; presa di posizione molto in linea coi tempi, ma che a lungo andare pagherà cara: già l’anno successivo, 1977, pubblica il successivo Disoccupate le strade dai sogni con una casa discografica fondata due anni prima da Nanni Ricordi: Ultima spiaggia. Disco in realtà molto importante, molto lolliano e profetico di una normalizzata arrendevolezza, di quel riflusso in quel momento non ancora codificato che si incaricherà di delineare gli afasici anni Ottanta, allorché la dimensione privata e postpolitica prende abbastanza naturaliter il sopravvento sulla partecipazione attiva.
La bomba alla stazione di Bologna dell’estate 1980 conclude una stagione torva e violenta iniziata con l’esplosione milanese di piazza Fontana alla fine del 1969: la poetica e i dischi clou di Lolli sono racchiusi in quella parabola temporale e non è infatti un caso se negli ultimi anni, quasi a voler riappropriarsi di un legame generazionale, Lolli cantava spesso “La ballata del Pinelli,” unico brano altrui all’interno di una rigorosa scaletta autografa. È solo per tentare di mettere un po’ di ordine che inscriviamo la parabola discografica di quest’importante artista all’interno di paratie cronologiche; ed è comunque vero che nonostante un disco eccezionale come Extranei (1980), il nuovo decennio inizia male: un promoter sardo invita Lolli a cantare in un locale molto poco idoneo all’atmosfera adatta per un live chitarra e voce del cantautore, sicché il pragmatico Claudio torna a Bologna, rispolvera una laurea in lettere, si mette a insegnare in un liceo e senza rinunciare alle canzoni, ai dischi e a sporadici concerti, scrive alcuni libri di racconti brevi: L’inseguitore Peter H. (1984), Giochi crudeli (1990) e Nei sogni degli altri (1995). La seconda metà dei Novanta è contrassegnata da numerosi concerti più qualche disco, tra i quali spiccano Intermittenze del cuore e Viaggio in Italia, rispettivamente del 1997 e del 1998. Anche per la sua produzione di scrittore c’è tempo ancora per un ultimo, significativo Lettere Matrimoniali, del 2013, dove l’autore mette a nudo le sue pulsioni autobiografiche in un’accorata confessione-stream of consciousness della quale la compagna Marina è l’evocata ancorché immaginaria destinataria.
Gli ultimi anni sono silenziosi e molto meno frenetici: Lolli si toglie la soddisfazione, nel 2010, di suonare la sua Primo maggio di festa (contenuta in Ho visto anche degli zingari felici) al rituale concerto, telediretto, del primo maggio, indetto dai sindacati confederati in piazza San Giovanni, a Roma. Qualche tempo dopo, alla fine di un suo concerto, Lolli cade male nelle scale di un teatro e inizia un penoso iter di traversie mediche che, anche per effetto delle complicazioni dovute a un tumore al duodeno, lo porteranno a morire nella sua città, il 17 agosto 2018. Qualche amico osservò che c’era tutto Claudio nel riuscire a morire di venerdì 17 e oltretutto nel mese più caldo di una città dall’estate rovente come Bologna. Aveva 68 anni.
Gli amici e i numerosi seguaci sono in attesa di una fondazione a lui intitolata che è in corso di istituzione.