Fu quando gli zingari arrivarono al mare che la gente li vide, che la gente li vide come si presentano loro, loro, loro gli zingari, come un gruppo cencioso, così disuguale e negli occhi, negli occhi impossibile, impossibile poterli guardare.
E allora gli zingari guardarono il mare
e ne stettero muti perché subito intesero
che lì non c’era niente, niente da dover capire,
niente da stare a parlare, niente da stare a parlare
c’era solo da stare, fermarsi e ascoltare.
Sì perché il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente ridotta, svilita, parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d’amore, di bene e di male, non disse lui li ringraziò solo tutti di quel loro muto guardare.
E allora lui il vecchio, sì proprio lui, il mare
parlò a quella gente bizzarra, svilita
e diede al suo corpo un colore anormale
di un rosso tremendo,
qualcuno a star male, qualcuno a star male.
Questo fu quando gli zingari arrivarono al mare.
The Gypsies
Translated by:
Francesco Ciabattoni
It was when the gypsies arrived at the sea that people saw them, that people saw them as they present themselves, them, the gypsies, as a ragged group, so unequal and in their eyes, in their eyes it’s impossible, impossible to look at them.
And then the gypsies looked at the sea
and they were silent because they immediately realized
that there was nothing there, nothing to understand,
nothing to stand and talk about, nothing to stand and talk about
one only needed to stand, stop and listen.
Yes because the old man, the sea himself, spoke to those reduced, debased people, he spoke but he did not say of massacres, of deaths, of fires, of war, of love, of good and evil, he did not say, he only thanked them all for their silent gaze.
And then he the old man, yes the sea,
spoke to those bizarre, debased people
and gave his body an abnormal color
a terrible red,
some got sick, some got sick.
Lo stile teatrale di Enzo Jannacci (1935-2013) e l’amore per la sua città natale, Milano, e il suo dialetto, lo hanno spinto a cantare sul proletariato urbano e su coloro che vivono ai margini della società. Negli anni del cosiddetto “miracolo economico” dell’Italia (1958-1960), quando il crimine appariva allo stesso tempo disorganizzato e romantico, Jannacci esordiva come cantautore di talento e interprete istrionico, prestando la sua voce (ma anche la sua teatralità) a brani scritti da altri o in collaborazione con altri autori. Ne sono un esempio il successo del 1964 “Quella cosa in Lombardia”, con musica di Fiorenzo Carpi e parole del poeta Franco Fortini, e “La luna è una lampadina” di Carpi e il premio Nobel 1997 Dario Fo. Jannacci ha co-firmato “L’Armando” con Fo, e ha dato vita a collaborazioni durature con lui e Giorgio Gaber, spesso producendo “capolavori di surrealismo pop, storie urbane folli che raccontano il passaggio dall’Italia più semplice e paternalistica di dagli anni Cinquanta al paese neocapitalista degli anni Sessanta ”(Carrera, 331).
Sebbene la produzione successiva di Jannacci fosse principalmente in italiano, il suo stile tragicomico e alienante non ha mai perso l’energia visionaria e travolgente che ha così ipnotizzato il pubblico. Canzoni come “Vincenzina e la fabbrica” (1974) impiegano uno stile melodico italiano piuttosto classico per descrivere i sentimenti di una giovane donna del sud Italia che lavora in una fabbrica di Milano. Se qui Jannacci metteva a nudo le stridenti contraddizioni e difficoltà della società industriale in una grande metropoli del nord Italia, nel blues ambulante “Quelli che…” prende in giro sottilmente l’indifferenza e l’ipocrisia così diffuse tra gli italiani. Enzo Jannacci è stato un cardiologo di alto profilo, (ha collaborato anche con Christian Barnard), un pianista di talento, un cantautore geniale, un attore e sceneggiatore brillante, le canzoni distintive di Jannacci combinano intelligenza con sciocchezze e critica sociale. Gli elementi jazz e swing sono una parte significativa del suo stile musicale, e si mescolano a un umorismo assurdo e a un amaro realismo, rendendo Enzo Jannacci uno degli autori e interpreti più versatili, profondi e influenti della canzone d’autore italiana.
Bibliografia: Carrera, Alessandro. “Folk music and popular song from the nineteenth century to the 1990s” in The Cambridge Companion to Modern Italian Culture, ed. by Z. Barański and R. West, Cambridge University Press, 2001, pp. 325-335.
Nel 1968 in Italia esistevano due soli canali televisivi, entrambi naturalmente Rai e in bianco e nero. La trasmissione di punta di un certo periodo dell’anno fu Canzonissima, una gara tra cantanti che dovevano, via via che passavano il turno, proporre una canzone diversa del loro repertorio.
Jannacci aveva appena conosciuto lo strepitoso successo di “Vengo anch’io? no tu no!”, una specie di inno dei rifiutati, forse degli sfigati, canzonetta che raccontava di uno che non lo volevano allo zoo comunale, ma non lo volevano così tanto tra i piedi che addirittura non gli permettevano di partecipare al “suo funerale”. Jannacci si presenta con quel pezzo e passa brillantemente il primo turno, come previsto. E’ già un miracolo: lo stralunato, impacciato giovane medico, re delle notti milanesi tra solido jazz con pianoforte e immaginifico canzonettistico con chitarra, riesce a conquistare quello che oggi verrebbe definito come il pubblico nazionalpopolare della televisione del sabato sera. L’entusiasmo è tale, per il passaggio del turno nella trasmissione più vista dell’anno, che l’amico Fo pensa che sia arrivato il momento di forzare e spinge Enzo a proporre per la fase finale la sua ballata “Ho visto un re”, retaggio del teatro popolare. La canzone precorre le affabulazioni di Mistero buffo e si scatena in un contagioso e allegro attacco al potere e ai potenti. Naturalmente la commissione Rai – non dimentichiamo mai gli anni bui della Rai ogniqualvolta parliamo di censure – non ammette al concorso la ballata, considerandola “troppo politica e polemica”.
Jannacci, deluso, accetta solo apparentemente la “bocciatura”. Ma in realtà contrattacca proponendo “Gli zingari”.
Ecco, la nostra conoscenza vera, choccante, intima di Enzo Jannacci incomincia da lì, da quella canzone vista un sabato sera in tv da giovanissimi spettatori. “Gli zingari” – testo, musica, arrangiamento suoi – è un capolavoro di poesia, se si vuole ancora più rivoluzionario di “Ho visto un re”: nelle parole, nelle immagini, nella “lentezza” della musica, negli intenti, nel suo struggente sostegno alle diversità. Il testo è in realtà breve. Ci racconta di un gruppo di zingari che si ritrova improvvisamente davanti all’immensità del mare. E’ un’immagine – questa dell’uomo di fronte a una Grandezza che fatica a capire e che per questo lo possiede – abbastanza diffusa nella storia della poesia sia scritta che cantata. Ci vengono in mente “I pastori d’Abruzzo” di Gabriele D’Annunzio, dove l’impatto è tra i pastori della transumanza e il mare Adriatico; o più semplicemente, di lì a qualche anno, la bella intuizione di Guccini in “La bambina portoghese” che contrappone la fragilità di una bambina che gioca sulla spiaggia, dinnanzi all’immensità dell’oceano Atlantico. Ma la grande forza de “Gli zingari” sta innanzi tutto non solo nell’impatto di “quella gente ridotta, svilita” con il mare, ma nel fatto che il mare interagisce con loro, “proprio loro, gli zingari”, quasi fosse l’unico a capire. E allora “parlò, ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d’amore, di bene e di male… non disse… lui li ringraziò solo tutti di quel loro muto guardare” (…) “e diede al suo corpo un colore anormale di un rosso tremendo, qualcuno a star male, qualcuno a star male… questo fu quando gli zingari arrivarono al mare”.
In epoca di grandi utilizzi del web è molto facile andare a riascoltarsi questa canzone e a capire come quarantacinque anni fa si potesse essere dentro alla realtà con coraggio e poesia.
La canzone, manco a dirlo, non vinse. Forse in finale arrivò ultima, ma quel “qualcuno a star male”, lì, sospeso, ci è rimasto dentro per sempre.
2. Enzo e noi (cioè Enzo e gli “zingari”)
Poi l’abbiamo conosciuto davvero, Jannacci, quasi per caso. Tra la fine dei Settanta e gli inizi degli Ottanta abbiamo trascorso con lui anni quasi in simbiosi; gli aneddoti si sprecano ma non sono condivisibili fuori dal gruppo: la follia si consuma solo tra folli. Abitavo vicino e forse Enzo, il dottor Jannacci tornato dagli Stati Uniti dopo qualche tempo di apprendistato in varie équipe mediche, apprezzò in me la capacità di trattarlo da persona “normale”, sforzandomi di dimenticare l’entusiasmo di poterlo frequentare vivolìve, un vero privilegio. Lo convincemmo a tornare a giocare a pallone e divenne un solido terzino fluidificante della gloriosa squadra di Radio Popolare (che lui chiamava Banda Popolare con la quale partecipavamo al “Torneo dell’ informazione”, una specie di campionato aziendale di lusso tra tutte le testate giornalistiche.
Lui ci convinse, in cambio, a diventare karateka. Jannacci era il nostro istruttore, essendo un apprezzato secondo dan. Avevamo formato un gruppo di iniziati quasi fanatici, in realtà fanatici al 50% del karate di Enzo e al 50% delle uscite che ne seguivano dopo la lezione, con Giorgio Gaber e compagnia cantante. Insomma, come si può immaginare fu un periodo per noi irripetibile.
In quegli anni, così come prima di conoscerlo e poi negli anni a seguire, abbiamo amato alla follia questo artista capace di scrivere centinaia di canzoni raccontando gli ultimi, i vinti, gli emarginati con un dosaggio unico tra ironia, sarcasmo, comicità, impegno, dramma, profondità. Arrivava, in certi momenti, a essere struggente. Coltivava, come ogni vero comico, il senso del tragico. Sapeva parlare per iperboli. Usava allegorie, esaltazioni, esasperazioni. Immagini colorate e quasi mai didascaliche, pennellate alla Picasso, schizzi alla Pollock; ma anche la Milano in moto di Boccioni e i fermi immagine sulle periferie di Sironi. Praticava con gusto dello spettacolo il “non-vero verosimile” sostituendolo al reale. Ci ha insegnato a diffidare di coloro che parlano solo per luoghi comuni o per certezze acquisite. Ci ha resi partecipi dei suoi spiazzamenti. Certo come lui nessuno, e tanto meno noi, ha saputo più farlo così bene. Ha avuto il dono di sapersi spostare sempre un po’ più in là, per non essere messo a fuoco. Come solo i grandi sanno inventarselo, ogni volta che il suo pubblico (che poteva essere il suo interlocutore in una chiacchierata, o un’intera platea) credeva di averlo capito e pensava di poterlo anticipare, lui era già da un’altra parte. E stupiva con una piroletta, spesso un salto mortale da fermo. La sua schizofrenia artistica arrivò a contagiare anche certi momenti della sua quotidianità, e questo lo rese unico anche nella vita.
È incredibile la quantità di ritratti strepitosi che ci ha regalato questo poeta, irrinunciabile interprete di Milano, città–metropoli, città “terra di mezzo”. La Milano che è cresciuta insieme a Jannacci, e di rimbalzo a noi tutti, è una metropoli che deve saper accettare e addirittura incentivare con entusiasmo morale e culturale, la sua singolare collocazione geografica che la rende appunto terra di passaggio tra Mediterraneo e mittel-nord Europa. L’accettazione come una fortuna di questa sua peculiarità ha salvato fin qui Milano, quando è stata capace di farlo. Ma è un percorso faticoso, a volte faticosissimo. Fatto di diversità anche profonde. Le canzoni di Jannacci – all’origine il divario Nord/Sud era un contrasto soprattutto nazionale – ci hanno aiutati a capirlo.
Giovanni, il telegrafista disperato d’amore e di abbandono; Bobo Merenda, operaio che s’invaghisce di una lente a contatto “che da sé si applicò”, ma che soprattutto lavora in una fabbrica d’armi e si chiede come mai su quei meravigliosi giocattoli che costruisce c’è scritto di maneggiare con estrema cautela; il Ragazzo padre, sbattuto fuori casa con il figlio, che abbracciandolo al parco per il freddo viene scambiato per pedofilo; il Dritto, cioè quello che alle feste “della casa popolare al 3” mette su i dischi; o “Gigi Lamera che abitava dietro a Baggio” e che, altro innamorato senza ritorno, “ostentava la cravatta dell’Upìm” regalando alla sua bella fiori intagliati nelle lamiere. Potremmo andare avanti all’infinito, ogni volta stupendo e stupendoci proprio come faceva lui. Inutile dire di quella che è da considerarsi una delle più grandi intuizioni della musica italiana: il barbùn in scarpe da tennis che sale sulla macchina del ricco e guardatocca dappertutto, ma con “rispetto”…; o il protagonista di “Andava a Rogoredo”, altro innamorato abbandonato da una che aveva un “vestidìn color de trasù”, che però rimanda il suicidio per riscuotere un credito; o il perdente di “Per un basìn” che appunto “per un basìn sarìa andato a Como in moto poeu saria tornaa a cà a pée”, e che il bacio lo elargisce, ma naturalmente è un basìn non gradito e viene cacciato dalla balera… Infine, lo lasciamo in fondo, il muratore di “Costruzione,” emozionante invenzione del suo amico Chico Buarque, vittima di un “omicidio bianco” o forse suicida (ma c’è poi tanta differenza?) che muore “contromano imbarazzando il traffico”, o “il sabato”, o “il pubblico”. È una delle interpretazioni di Jannacci più intense.
Ci sono poi canzoni memorabili che non parlano di personaggi singoli, ma sono pure elencazioni e qui siamo a poesie sublimi: andate a leggere i testi o ascoltare su youtube “Il Duomo di Milano”, “La disperazione della pietà” o le varie rielaborazioni di “Quelli che…” (quest’ultima genialata è stata ispirata da una poesia di Jacques Prévert scoperta e riscritta in varie edizioni da un altrettanto indimenticato cuore della cultura milanese di quegli anni: lo scrittore e giornalista Beppe Viola, suo eterno amico).
Da adolescenti eravamo particolarmente affezionati, anche per problemi oggettivi, a “Un foruncolo”, altra canzone a tutela degli sfigati e scritta con Dario Fo, in cui ci veniva trasmessa, complice, l’angoscia di veder crescere un foruncolo – “o forse un orzaiolo o un patereccio” – con la consapevolezza, senza via di scampo, che “la mia ragazza non ama i foruncoli, né gli orzaioli e forse, neppure i paterecci”…
La grande capacità di Jannacci dottor Vincenzo detto Enzo, è stata quella di vivere il suo essere intellettuale nella maniera più “pop” possibile. Da pianista freejazz “sofisticato”, si convertiva in cantante sguaiato da trani; disquisiva di ragazze e di milanismi (“’sto Rivera che ormai non mi segna più”) e subito dopo si metteva a parlare con lo stesso trasporto (il gusto dell’assurdo, lo spiazzamento!) di politica, di medicina, karate o musica dodecafonica. Aveva inventato un linguaggio visivo e parlato e cantato e suonato “a strappi”, che gli permetteva di comunicare, quando era sereno, con straordinari impatti e immediatezze.
In epoche in cui noi ci si logorava in politica per le difficoltà di viversi “intellettuali organici” (ci viene in mente un film di quei tempi: Lettera aperta a un giornale della sera di Nanni Loy), Jannacci lo era spesso e volentieri nei fatti. Sapeva cioè essere avanguardia senza perdere quelle che allora si chiamavano “le masse”. Ecco come…
3. Enzo e la gente (cioè Enzo, noi e il pacco)
Siamo nel 1980. E’ il periodo in cui lavoriamo “come hobby” a Radio Popolare. È lì che abbiamo cominciato in tanti e da lì che per noi è cominciato tutto. Stavamo per decidere di abbandonare definitivamente i nostri vecchi lavori da impiegati per diventare liberi professionisti della scrittura, soprattutto comica. In quegli anni Maurizio Costanzo aveva fondato per il gruppo Rizzoli un giornale, popolare alla maniera inglese, che aveva chiamato L’Occhio. Nel nostro spazio di satira a Radio Popolare avevamo deciso di fare il verso a quell’iniziativa inventandoci L’orecchio, cioè l’antitesi dell’Occhio, anche perché era da ascoltare e non da leggere. Ci mancava una sigla, naturalmente la chiedemmo a Enzo, sensibile a noi, a Radio Popolare, a tutto ciò che andava contro l’informazione ufficiale. Jannacci stava finendo un ellepì (allora erano ancora vinili) che doveva intitolarsi Musical, dal titolo del pezzo, bellissimo, più importante dell’album (“…tu che non parli nemmeno se putacaso domani ci chiudono tutta la fabbrica, mi guardi come si guarda un parente e mi dici ‘questo è il momento del musical…’”). Sapevamo che era una richiesta disperata perché non aveva tempo, era sempre in sala d’incisione. Ma Enzo se non lo prendevi per la testa lo prendevi per il cuore e se non lo prendevi per il cuore lo prendevi per le budella… Portammo, sapendolo, il testo scritto a mano alla sua portineria.
La sigla, nei nostri intenti, si doveva chiamare “Ci vuole orecchio” e in tre strofe più quattro ritornelli cercavamo con una specie di parallelismo tra la società e il mondo della musica, di spiegare quanto fosse difficile sia culturalmente, che umanamente, che politicamente svolgere il ruolo di intellettuali facendosi capire dalla gente. La nostra convinzione era (e per fortuna lo è ancora) che il massimo della vita, per un artista o di un intellettuale, è saper fare le cose in modo intelligente e il più possibile “alto”, senza perdere i contatti però con il reale, cioè per intenderci con i tuoi vicini di casa che incontri dal panettiere…
Il testo consegnato a Enzo: sette blocchetti in rima fatti di sassofoni che suonano da soli mentre la base va dall’altra parte e di “chi perde il ritmo si deve ritirare, non c’è più posto per chi vuol far da solo”, eccetera. Naturalmente, in seguito, proprio perché farsi capire è la cosa più difficile in assoluto, di tutta questa spatafiata – base e avanguardie – è arrivato ben poco alla gente che ha decretato il successo di questa canzonetta, diventata di lì a qualche settimana una hit. La canzone era orecchiabile e divertente. Già, perché poi la sigla Jannacci la musicò, e gli piacque così tanto che non potemmo usarla per la nostra trasmissione: la volle nel disco. Addirittura, divenne il titolo del 33 giri che uscì di lì a poco.
Sette blocchetti in rima per un concetto riassumibile in otto parole: bisogna avere il pacco immerso dentro al secchio. Ecco: Jannacci aveva aggiunto questa semplice frase al nostro ritornello, interpretando in una riga/immagine un nostro arzigogolo infinito… Il Genio. Quello che ha distinto l’irraggiungibile Maradona dal bravo portaborracce Salvatore Bagni è esattamente questa cosa. Il secondo, cioè noi, è stato un bravo e onesto calciatore, l’altro il più grande numero 10 della storia. Perché? … “perché ci vuole orecchio, ma soprattutto bisogna avere il pacco immerso, intinto dentro al secchio. Bisogna averlo tutto, tanto, anzi parecchio”.
[1] Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Il Fatto Quotidiano (lunedì 8 aprile 2013)ed è ora disponibile anche sul blog dell’autore, Michele Mozzati, scrittore, autore televisivo e cinematografico. Michele firma i suoi lavori prevalentemente con Luigi Vignali (Gino & Michele). Nel pezzo accenna alla frequentazione e all’amicizia del musicista e attore Enzo Jannacci non solo sua, ma dell’intero suo piccolo gruppo di amici e collaboratori.
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