(Monfalcone, 1934 -)
Di Marianna Orsi (University of Hawaii at Manoa).
Gino Paoli, cantautore della prima generazione, fra i massimi esponenti del gruppo noto come “Scuola genovese”, tra i pochi ancora in attività, è considerato una colonna del cantautorato italiano. Nelle sue canzoni, quasi esclusivamente a tema amoroso, si distacca dalla visione dominante della donna e dell’amore a finale matrimoniale.
Paoli nasce a Monfalcone il 23 settembre 1934. Il padre Aldo è un ingegnere navale di Campiglia Marittima, la madre Rina, di famiglia benestante della Venezia-Giulia, è pianista e gli trasmette l’amore per la musica. Gran parte della famiglia materna è coinvolta nell’esodo giuliano-dalmata (la cacciata delle popolazioni di origine italiana dalla Venezia-Giulia e dalla Dalmazia durante la Seconda guerra mondiale, alcuni sono vittime della pulizia etnica a opera dei partigiani jugoslavi e finiscono nelle foibe.
Dopo pochi mesi la famiglia si trasferisce a Genova, nel quartiere Pegli e il capoluogo ligure diventa la vera patria di Paoli.
A diciotto anni, nel 1952, va a vivere da solo in una soffitta di Boccadasse con la gatta Ciacola (‘chiacchiera’ in dialetto veneto).
Pur essendo un avido lettore – racconta di essersi rovinato la vista leggendo sotto le coperte con una torcia – è poco incline agli studi, a differenza del fratello Guido, che diventerà fisico e professore universitario dopo aver tentato la carriera di musicista. Gino vuole fare il pittore e inizia a lavorare come grafico pubblicitario.
Stringe importanti amicizie con musicisti e autori che diverranno poi noti come Scuola Genovese: Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Umberto Bindi, Joe Sentieri, Giorgio Calabrese, Gian Piero Reverberi e Gianfranco Reverberi. Si avvicina alla musica, specialmente al Rock ’n roll, e con Tenco, Lauzi e altri due amici fonda il gruppo “I Diavoli del Rock”.
Nel 1959 i fratelli Reverberi gli fanno ottenere un’audizione con la casa discografica Ricordi di Milano, e lo stesso anno Paoli incide alcuni pezzi non suoi, senza grandi riscontri.
Nel 1959 sposa Anna Fabbri conosciuta a un campionato di ballo Rock ’n Roll.
Negli stessi anni, come molti dei suoi amici musicisti, si avvicina alla canzone francese: George Brassens, Boris Vian e più avanti di Jacques Brel. Paoli contribuirà alla diffusione del loro lavoro, inciderà e tradurrà brani di Marcel Mouloudji e Charles Aznavour, e collaborerà con Brel.
Nel 1960 Paoli incide il suo primo pezzo, “La gatta“, brano autobiografico, che vende un centinaio di copie nei primi mesi, ma il successo arriva quando il noto paroliere Mogol propone a Mina, cantante già affermata, di interpretare Il cielo in una stanza (Mina porterà al successo anche La canzone di Marinella di De André). È la consacrazione di Paoli come cantautore.
Nel 1961 incontra Ornella Vanoni, attrice e cantante e intreccia con lei una relazione, al loro primo incontro sarà ispirato il brano “Senza fine“.
Nel 1962 mentre guida ad alta velocità la sua Giulietta Spider, provoca un incidente in cui muore l’amico chitarrista Victor Van der Faber. In ospedale, disperato, Paoli tenta di lanciarsi da una finestra, viene fermato in extremis. In seguito viene condannato a 7 mesi di carcere che sconta con la condizionale.
Iniziano i suoi problemi con l’alcool. Finiranno solo nel ’76, quando, in seguito alla morte del fratello per abuso di alcolici, deciderà di disintossicarsi.
Nel 1963 incide “Sapore di sale” e poi “Che cosa c’è”. Il successo è ormai enorme.
Nello stesso anno conosce l’attrice Stefania Sandrelli e inizia con lei una relazione che desta scandalo vista la minore età di lei, visto che Paoli è in attesa di un figlio dalla moglie Anna e che anche Sandrelli rimarrà incinta poco dopo. Giovanni Paoli nascerà nel 1964 e, a pochi mesi di distanza, nascerà Amanda Paoli Sandrelli.
La carriera di Paoli è all’apice, ma il successo, i guadagni, la crisi con la moglie, le molteplici relazioni sentimentali, l’alcolismo, il senso di colpa per la morte dell’amico Van der Faber, lo disorientano e, l’11 luglio 1963, tenta il suicidio sparandosi un colpo al cuore. Si salva miracolosamente; il proiettile non viene mai estratto.
A tal proposito Paoli dichiarerà: “si trattò di un atto voluto, pensato. Pensavo non ci fosse altro da vivere. La mia canzone “Sapore di sale” era ovunque, ero famosissimo, l’uomo del momento. Paura della noia, della ripetizione. Avevo tre macchine in garage, avevo i soldi, le donne, cosa potevo volere ancora? […] [Il suicidio è] l’unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l’amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l’unico, arrogante modo dato all’uomo per decidere di sé”.
In seguito al tentato suicidio viene condannato per possesso illegale di arma da fuoco.
Nel 1964 divorzia da Anna Fabbri.
Nello stesso anno partecipa a Sanremo con un certo successo ma è ormai la fine del suo periodo d’oro. Torna a Sanremo nel 1966 ma non arriva in finale, l’album del 1967 ha risonanza limitata.
Nel 1965 si schianta con la sua Ferrari contro un albero. Si allontana dalla scena pubblica, per anni suona solo nei locali; si avvicina alle droghe; esce dalla dipendenza solo alcuni anni dopo.
Nel 1968 decide di smettere, si ritira in Liguria, a Levanto, dove apre un locale in cui invita spesso gli amici musicisti. Non si riconosce nella canzone politica di quegli anni, preferisce parlare di politica indirettamente, attraverso canzoni d’amore che si oppongono alla morale dominante o parlano di un rapporto egualitario fra uomo e donna.
Dopo alcuni anni di silenzio nel 1971 incide una trilogia di album e inizia il suo impegno in politica: diventerà deputato fino al 1992.
Il successo torna a partire dagli anni Ottanta grazie anche a due delle donne della sua vita; prima, nel 1984, con la colonna sonora del film Una donna allo specchio, con Sandrelli, poi, nel 1985, con il tour con Ornella Vanoni.
Nel 1991 “Quattro amici al bar” scala le classifiche, come, l’anno successivo, il brano del film Disney La bella e la bestia, interpretato con la figlia Amanda.
Nel 1996 firma una traduzione di Imagine di John Lennon, che reputa la più bella canzone mai scritta, nell’album Appropriazione indebita.
—–
Bibliografia
Ornella Vanoni, Gino Paoli, Enrico De Angelis. Noi due, una lunga storia, Milano, Mondadori, 2004.
http://www.ginopaoli.it/ginopaoli/biografia.asp
https://it.wikipedia.org/wiki/Gino_Paolihttps://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/12_Dicembre/21/paoli.shtml
Di Marianna Orsi (University of Hawaii at Manoa)
Nel 1960, un timido e ancor poco noto Gino Paoli esegue Il cielo in una stanza per un discografico, che ascolta e sentenzia che il pezzo non avrebbe mai funzionato. Paoli ringrazia e se ne va.
Il paroliere Mogol, però convince Mina a incidere il pezzo e il successo è immediato.
Canzone d’amore in linea con i toni intimisti della nascente Scuola genovese e, almeno in apparenza, non lontana dai modi dell’imperante canzone d’evasione, per molti descrive un sentimento etereo, incorporeo, spirituale. Il fatto che a interpretare il brano fosse una donna rafforza la teoria; come afferma lo stesso Paoli, infatti, a quel tempo, alle donne delle canzoni non spettava un ruolo attivo specialmente nella relazione amorosa.
La canzone, in effetti evita di descrivere la coppia di amanti e le loro azioni, secondo la tradizione retorica della reticenza; si sofferma sull’ambiente che li circonda e sulla forza dell’amore che travolge tutto, sfonda le pareti e li trasporta in un’altra dimensione.
Le intenzioni di Paoli, però, erano tutt’altre e Il cielo in una stanza è un testo, a suo modo, rivoluzionario.
Allo stile della canzonetta degli anni Cinquanta, al suo linguaggio letterario, artificiale, fitto di troncamenti, assonanze, rime (cuor, amor, dolor…), Paoli oppone uno stile essenziale, autentico. Agli spazi stereotipati della canzonetta, i mari del sud, i loci amoeni evocati con formule trite e vuote (prati in fiore, cieli stellati…), oppone uno spazio realistico e quotidiano. Al tema dell’amore consacrato dal matrimonio, onnipresente come supremo obiettivo nella canzone degli anni Cinquanta, Paoli oppone un amore effimero, extra-coniugale ma estatico.
La stanza in questione, infatti, come può far supporre il soffitto viola, è quella di un bordello, con tanto di specchio sul soffitto. Prima dell’approvazione della Legge Merlin nel 1958, infatti, in Italia erano presenti più di cinquecento bordelli e Genova, città portuale, era famosa per le sue vie a luci rosse (presenze fisse nelle canzoni di De André). Da adolescenti, Paoli e i suoi amici frequentavano spesso le case chiuse, anche solo per giocare a dama con le signorine, non avendo i soldi per pagare.
A proposito de Il cielo in una stanza, Paoli dichiara: “Inizialmente […] fu interpretato come una sorta di amore mistico, quasi cattolico, slegato dalla realtà, senza riscontri fisici. Io invece ero partito proprio dall’idea opposta: […] l’atto d’amore […] è una sorta di messa […], squarcia il tetto e ti fa vedere il cielo […], ti proietta in una realtà superiore […] [è] un sacrificio umano talmente straordinario da aprire qualsiasi porta, qualsiasi tetto, fino a far diventare la brutta stanza di un casino una cattedrale con gli alberi che toccano il cielo. È l’unico momento in cui un uomo non è più se stesso, ma esce da sé ed esplode nell’universo” (da Ornella Vanoni, Gino Paoli, Enrico de Angelis, Noi due, una lunga storia, Milano, Mondadori, 2004, pp. 55-57). L’armonica, invece, rivela Paoli, l’aveva suonata al matrimonio di suo nonno Gino, sposatosi in tarda età: “Quella canzone è la celebrazione di un rito, di un officio, di qualcosa di sacro come è fare l’amore. Il riferimento all’armonica ci stava bene” (http://www.ginopaoli.it/ginopaoli/biografia.asp).
Per Paoli il tema amoroso non è affatto disimpegnato, anzi, è la sua peculiare forma di impegno politico: opporsi alla morale dominante, alla visione angelicata della donna unicamente moglie-madre-oggetto amato, promuovendo l’eguaglianza di genere, dando voce all’amore non conforme.