Lucio Battisti
Di Francesco Ciabattoni (Georgetown University)
Se a un cantante viene intitolato addirittura un asteroide, è legittimo affermare che quel cantante è per sempre nel firmamento musicale non solo di una cultura nazionale, ma nell’universo delle leggende della canzone. Il nome di Lucio Battisti (Poggio Bustone, Rieti, 1943 – Milano 1998) in Italia diviene sinonimo di musica leggera già nei primi anni ’60 grazie alla voce versatile, capace tanto di risonanze delicate quanto della grinta del rocker. Battisti e il paroliere Mogol (Giulio Rapetti) hanno firmato insieme alcune delle canzoni storiche e più memorabili del pop d’autore degli anni ’60-’70, stravolgendo e determinando il corso della canzone italiana. Mescolando con sicurezza melodia italiana, rhythm’n blues, rock, pop e ritmi latini, Battisti ha saputo sposare i testi di Mogol con grande sensibilità. Lo stile vocale sofferto di Battisti, che scriveva le musiche, il suo filo di voce sostenuto da un’energia intensa e ruvida, e le geniali parole scritte da Mogol, con il loro tono colloquiale e intimistico, hanno decretato un successo straordinario per questa coppia di artisti.
Se molte delle loro canzoni tra il 1965 il 1980, anni che incorniciano la loro collaborazione prima della definitiva rottura, furono cantate dalle più celebri interpreti italiani e stranieri (Mina, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Paul Anka, Gene Pitney, Wilson PIckett), la voce dello stesso Battisti, unica e inconfondibile col suo tono di falsetto divenne immediatamente un marchio di qualità. Le canzoni di amore e solitudine raccontano la nuova società urbana italiana, con le sue contraddizioni e con la sua istintività tutta maschile. Ed è proprio la crisi del maschio che viene fuori in maniera evidente da certe canzoni: in “Fiori rosa, fiori di pesco” l’io-cantante crede di riaccendere un vecchio amore comparendo all’improvviso alla soglia di lei, solo per trovarla insieme a un altro e fare un’imbarazzante marcia indietro. In “Il tempo di morire”, il protagonista supplica la donna che ama—e che è innamorata di un altro—di concedergli soddisfazione in cambio di quanto ha di più caro. Cioè la sua motocicletta. “Dieci ragazze” vede un uomo che tenta inutilmente di dimenticare la donna che lo ha lasciato, fingendo di avere numerose altre donne a cui rivolgersi. “Luisa Rossi” è poi, forse, una dei brani più esplicitamente misogini firmati dalla coppia Mogol-Battisti, mentre “Non è Francesca” è il ritratto patetico di un uomo che rifiuta di credere all’evidenza: la donna che ama è libera, indipendente e sta con un altro: non lo pensa proprio.
Ma accanto a questo filone sulla fragilità maschile, Mogol e Battisti hanno esplorato molti aspetti della canzone leggera e della sua potenzialità espressiva: in “29 settembre” la scanzonata avventura extra-coniugale di un uomo non troppo profondo ha come sfondo il ricordo sbiadito della memoria storica collettiva della strage di Marzabotto (iniziata appunto il 29 settembre 1944). “Acqua azzurra, acqua chiara” dipinge, con reminiscenze vagamente petrarchesche, un idillio amoroso che finalmente sembra lasciarsi dietro lo squallore di amori rimediati di nascosto nei bar. “Emozioni” è una sentita carrellata introspettiva in cui la natura funge, romanticamente, da correlativo oggettivo dello stato d’animo del soggetto cantante. “E penso a te” e “Prendila così” affrontano con toni nostalgici il tema dell’amore terminato e del pensiero persistente degli amanti. “Una donna per amico” risolve, con sfumata ironia, la tenerezza e la bonaria gelosia di un’amicizia tra due persone di sesso opposto.
Dopo la rottura con Mogol, Lucio Battisti ha collaborato con altri parolieri, fra i quali spicca Pasquale Panella, paroliere poetico e sfuggente, artista di doppi sensi, calembours e paronomasie, ma sempre capace di evocare atmosfere speciali che ben si attagliano al sound new wave di “Don Giovanni” (1986).
Sebbene non apprezzato dall’intellighenzia di sinistra per la sua scelta di temi intimisti e mai politici, Battisti ha potuto contare su un sostegno solidissimo e ininterrotto dei suoi fan, arrivando però a caratterizzare indelebilmente le storie di due generazioni di italiani con la sua musica, le sue interpretazioni rivoluzionarie e le sue storie di ogni giorno eppure speciali e raccontate nel suo stile unico.
Gli anni del dopo-Mogol: Battisti e Pasquale Panella.
Di Alexandre Ciarla (Studioso indipendente)
A partire dagli anni ’80 la nuova discografia di Battisti esce lentamente di scena posizionandosi sempre più in basso nelle classifiche delle vendite. L’impatto del binomio Mogol-Battisti sulla cultura italiana resta comunque enorme e l’insuccesso della nuova produzione favorisce per riflesso la consacrazione del vecchio repertorio con un proliferare di omaggi e raccolte che non ha eguali nel panorama discografico italiano.
Nel 1982, Lucio Battisti pubblica un primo ellepì in solitario, intitolato E già. Un album intimista i cui testi sono scritti in collaborazione con la moglie Grazia Letizia Veronese. Per il pubblico italiano, il trauma della separazione da Mogol viene ulteriormente amplificato dalla realizzazione interamente elettronica degli arrangiamenti, dove ogni partitura è composta dallo stesso Battisti e in cui l’unico elemento carnale resta la voce inconfondibile del mito canoro degli anni ‘70. Anche la copertina fotografica decorata dal figlio, allora bambino, manifesta un atteggiamento di rottura con gli schemi dell’industria discografica dell’epoca. Da questo momento in poi Lucio Battisti, già ritiratosi dalle scene nel decennio precedente, non comunicherà in nessun altro modo che tramite i suoi dischi.
A partire dal 1986 Mogol verrà sostituito da Pasquale Panella ed è un dato di fatto che dopo l’album Don Giovanni (1986) nessuno abbia più saputo dire di cosa parlasse Battisti. Questo perché, a differenza di Mogol, Panella non avrebbe scritto per le masse bensì proprio per togliere le sue canzoni dalla bocca degli italiani.
Nel confronto inevitabile con i testi mogoliani, i suoi versi sono pieni di invenzioni linguistiche e doppi sensi che per molti sono solo giochi di parole. Mentre, per altri, queste frasi enigmatiche sarebbero delle sofisticate metafore che, oltre alla loro innegabile musicalità, sono in grado di assumere molteplici significati.
Azzardare un’interpretazione dei versi di Panella è quindi diventato uno dei giochi preferiti degli ascoltatori del Battisti post-mogoliano. Perché il valore aggiunto di queste canzoni è proprio che ognuno è libero di viverle come crede dando loro il significato che pensa di intuire nel momento unico ed irripetibile del singolo ascolto.
È come se agli occhi di Pasquale Panella, all’inizio degli anni’80 Lucio Battisti fosse diventato un «personaggio in cerca d’autore». L’io della canzone non è più l’uomo medio sentimentalmente coinvolto ma forse è lo stesso Battisti, preso, però, come prototipo assoluto del cantante di canzonette che cerca di liberarsi dal personaggio cucitogli addosso dal suo precedente autore Mogol.
In effetti le canzoni dei primi due album panelliani sembrano essere delle vere e proprie meta-canzoni che parlano di se stesse. Se non addirittura delle canzoni del disamore che svelano l’artificio della rappresentazione canora dei sentimenti.
Va detto comunque che ancor prima di incontrare Pasquale Panella, Battisti aveva già manifestato la volontà di rivolgersi all’ascoltatore in modo sincero, senza interpretare una storia o un personaggio. I testi del primo album post-mogoliano scritti assieme alla moglie (E già dell’82) descrivono la vita di un uomo che potrebbe benissimo essere lo stesso Battisti, diviso tra l’hobby del windsurf (“Windsurf windsurf”) e il lavoro in studio di registrazione (“Registrazione”).
Quello che è in assoluto il primo disco di musica interamente elettronica registrato in Italia è dunque anche un primo vero tentativo di mettere un piede fuori dalla cornice.
Ed è proprio in questa stessa direzione che possiamo rileggere le liriche di un altro ellepì straordinario, arrangiato e prodotto da Battiti, con testi di Pasquale Panella, e il cui titolo fa pensare che sia finalmente giunta l’ora di svelare al pubblico la finzione della canzone: Oh! Era ora del 1983.
Lucio Battisti e Pasquale Panella si incontrano per la prima volta in occasione dell’ultimo vero disco di Adriano Pappalardo, amico e collega di Battisti con il quale il cantante aveva l’abitudine di sperimentare nuove soluzioni.
Voltando questo disco sul lato B, si ha l’impressione di scoprire i retroscena della canzone poiché, nei quattro brani del secondo lato, si parla apertamente di «canzone registrata» (“Caroline e l’uomo nero”) mentre l’io cantante accenna in vario modo ad un suo sdoppiamento di personalità (“Questa storia” e “Io chi è”).
Come se tramite il cantante Panella non parlasse d’altro che di se stesso e di ciò che lo circonda. Mettendo quindi in scena il dramma interiore di un cantante di canzonette che rivolgendosi all’ascoltatrice le rivela il mistero della canzone registrata. Quello che, tre anni dopo, emergerà nel monumentale Don Giovanni (1986), dove tra raffinati arrangiamenti dal sapore jazz e innesti orchestrali, l’ascoltatore scopre il nuovo Battisti.
In questo disco del 1986 l’io cantante scopre di essere soltanto un terzo incomodo al vertice di un triangolo amoroso fra se stesso, l’ascoltatrice e l’autore dei testi (“Il doppio del gioco”). Anche gli altri cantanti confezionano «canzoni come calzoni» (“Equivoci amici”) proprio perché la celebre metafora dell’attaccapanni raffigurato in copertina racchiude l’idea che ogni cantante indossa i panni di un personaggio (“Don Giovanni”). Quindi alla fine ci si domanda: che vita ha fatto l’ascoltatrice, prendendo sul serio le parole del cantante? (“Che vita ha fatto”). La metafora del Don Giovanni è quella del seduttore irredento: il cantante disincantato che si prende gioco dell’ascoltatrice.
A questo punto, però, il vero mistero di questa collaborazione è perché sia durata così a lungo. Cioè se l’obiettivo era denunciare la falsità della canzone sentimentale, non è che dopo Don Giovanni rimanesse più molto da dire. Una volta demolita, la canzone d’amore la si doveva pur in qualche modo ricostruire, oppure tacere per sempre.
E invece, nell’ottobre dell’88, esce L’Apparenza. Solo che questa volta i testi delle canzoni sembrano improvvisati. Come se fossero stati scritti di getto, proprio mentre Panella stava riflettendo sul da farsi: domandandosi di cosa potesse ancora parlare. Non a caso da quest’album in poi sarà l’autore a dettare il ritmo all’interprete, il quale inseguendo le parole con la melodia, si troverà a dover musicare dei testi già fatti.
Ma mentre Don Giovanni svela il meccanismo illusorio della rappresentazione dei sentimenti, in questo secondo capitolo, il cantante sembra dirci che anche gli stati d’animo che noi proviamo sono solo «apparenza». Perché è la vita stessa ad essere una recita a soggetto (“A portata di mano” e “Per altri motivi”).
Alla fine del primo lato, l’autore trova finalmente la risposta al quesito che si era posto inizialmente, quando il cantante si domandava: «e poi di che parliamo?» (“Allontanando”). Come se improvvisamente Panella avesse capito fin dove poteva spingersi nella canzone.
Infatti, il brano “L’apparenza” non parla né del mondo della canzone e né della disillusione sentimentale ma sembra, piuttosto, il tentativo estremo di esprimere l’intimità tra un uomo e una donna. Dietro a quelle parole impenetrabili ma comunque bellissime vi sarebbe, infatti, la rappresentazione di un amplesso descritto nei minimi dettagli. Solo che l’argomento pruriginoso è mitigato dal lessico teatrale e dalle stupefacenti metafore (“tiri con gli occhi chiusi sull’atlante /
l’indice come un pulsante”), che stendono un apparente velo di pudore là dove, in effetti, il pudore non c’è.
Nei sei anni successivi a L’apparenza verranno pubblicati, ben altri tre dischi bianchi. Uno ogni due anni. Ognuno con otto canzoni e una copertina scarna, con un disegnetto o una scritta sullo sfondo bianco. I così detti dischi «bianchi» di Lucio Battisti, che sono appunto L’apparenza (1988), La sposa occidentale (1990), Cosa succederà alla ragazza (1992) e Hegel (1994) costituiscono «periodici ritratti» (“Estetica”) della disillusione sentimentale. Infatti, anche negli ultimi tre ellepì tutte le canzoni ruotano attorno ad uno stesso tema.
Benché in quegli stessi anni componesse per altri cantanti delle canzoni d’amore totale (Amedeo Minghi, Pino Mango e Mike Francis), Pasquale Panella sembra aver deciso di proseguire il sodalizio facendo di Battisti il cantore del disamore.
Nel 1990 viene pubblicato La sposa occidentale, in cui le canzoni parlano di una coppia annoiata, descrivendo il matrimonio come se fosse un transatlantico che navigando sul mare finisce per affondare nell’a-mare. Nei “I ritorni” la parola «amore», infatti, ritorna costantemente sulle labbra degli sposi ma è priva di sostanza. Perché il sentimento ha smesso di scorrere sottopelle. Gli sposi occidentali sono quindi «campati in aria» sospesi nel vuoto come il quadretto in copertina (“Campati in aria”).
In Cosa succederà alla ragazza del 1992, il cantante descrive la giornata di una giovane donna disillusa che, girovagando tra i negozi (“Ecco i negozi”), capisce che quello che riteneva essere un grande amore era solo una “cotta” (“Però il rinoceronte”). Ed è forse per questo che, inizialmente, Panella la ritrae nel forno come un agnello pasquale, alle prese con i «carciofi tenerelli», tipico piatto della tradizione culinaria romana (“Cosa succederà alla ragazza”).
Infine, Hegel del 1994 evoca il ricordo estetizzante di un amore liceale che riaffiora alla memoria di un uomo di mezza età. Dove «Hegel Tubinga» è soltanto il soprannome di una fidanzatina (“Tubinga”). Ma anche stavolta, l’estetica prevale sul sentimento e ciò che resta, nel ricordo, è solo la bellezza di quei momenti rubati alle ore di lezione (“La bellezza riunita”).
La disillusione sentimentale è un po’ il chiodo fisso di Battiti-Panella. E molti si stupiscono del percorso intrapreso dall’autore dei testi, durante e dopo il suo sodalizio. Immaginando magari che i testi potessero in qualche modo essere stati influenzati dallo stesso Battisti.
Forse per Battisti il guaio è stato proprio di aver incontrato qualcuno che, pur avendo probabilmente solo una vaga idea di chi egli fosse realmente, ha saputo dare voce al suo disagio. Fino a prendere il sopravvento. Non solo cucendogli addosso un nuovo personaggio ma chiudendo il cerchio in un modo che non era prevedibile, se non nella sua prima fase: smascherare la canzone sentimentale dal suo interno, per poi, però, ricostruirla daccapo su nuove basi, senza usare le espressioni fatte, i famosi «modi di dire» del linguaggio comune adottato da Mogol, bensì lavorando proprio intorno alle strutture della scrittura sentimentale.
Mentre Mogol descriveva storie d’amore, Panella simula il discorso amoroso restituendogli la sua persona fondamentale: che è l’io innamorato. Cioè egli non parla d’amore ma da innamorato. Quindi non dice il sentimento ma lo mostra.
In definitiva, è come se Panella fosse riuscito a restituire all’espressione dell’intimità la sua necessaria singolarità: l’io di un linguaggio privato tra un lui ed una lei. È da qui che prendono spunto le sperimentazioni linguistiche del «Trottolino amoroso, du du du e da da da…» della celebre canzone di Amedeo Minghi (“Vattene amore”). Un successo nazional-popolare degli anni ’90 che fa il verso alla retorica sentimentale, sfidando il senso del pudore e del buon gusto edulcorato della musica istituzionalizzata.
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